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Il passaggio dello Iabbok (Genesi 32, 23-33) e la benedizione a Israele (Genesi 35, 9-14)
(rav Luciano Meir Caro)


Penso che conosciate già la vicenda di Giacobbe, in particolare il suo forte litigio col fratello Esaù.
E' bello notare come il testo biblico ci prenda un po' in giro, riguardo alla primogenitura nel caso di questi due fratelli gemelli. Sembra quasi che le Scritture si impegnino, diciamo così, a demolire dei concetti, che facevano parte del mondo antico e che oggi fanno parte del nostro. Nell'antico mondo semitico essere primogenito significava avere delle qualità e delle prerogative speciali: ereditava la parte maggiore del patrimonio paterno e diventava capo della famiglia alla morte del padre. Capo della famiglia non nel senso nostro, ma nel senso del mondo patriarcale, dove il capo famiglia aveva il diritto di vita e di morte sui membri della famiglia; si trattava di un capo assoluto.
La Bibbia vuole smontare questa concezione, ma non lo fa sminuendo il nostro pensiero in modo diretto; la Bibbia utilizza diversi racconti che aiutino il lettore a comprendere che, in fondo, non è così rilevante essere primogenito o no. E se ci fate caso, nella Bibbia, tutti gli eroi che incontriamo non sono primogeniti, fatta eccezione per uno solo: Adamo. Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Davide non erano primogeniti. Sembra quasi che la Bibbia voglia denigrare il primogenito, per dire che non è così determinante nascere per primi; non è questo che rende grande un uomo.
Nella storia di Esaù e Giacobbe le cose sono un po' più complicate, perché i due erano gemelli. E quando ci sono due gemelli, il primogenito chi è? Quello che esce per primo o quello che esce per ultimo? Io non lo so. E primogenito vuol dire quello che è nato per primo o quello che si è formato nel corpo della mamma per primo?
Vi ricordate la storia di Tamàr? Anche lei partorisce due gemelli. Al momento del parto, uno dei due figli, fa uscire una mano e l'ostetrica, memore della faccenda di Esaù e Giacobbe, lega un nastro rosso attorno al polso del bambino. Ma il bambino tira dentro il braccio ed esce l'altro bambino. Allora il primogenito chi è? Quello che ha messo fuori il braccio per primo o l'altro, che invece è uscito tutto?
Notate una cosa. C'è un termine tecnico per indicare il nastrino rosso che viene legato al braccio ed è shanì, che vuol dire "stoffa rossa"; ma la stessa parola può essere letta come shenì, che vuol dire "secondo". Quindi, quando l'ostetrica ha messo il shanì al bimbo che aveva messo fuori il braccio, forse lei implicitamente l'ha riconosciuto come secondo e non come primo. Forse pensava che fosse il primo, ma in realtà ha adoperato un oggetto che diceva il contrario: quel bambino era il secondo.

Comunque, alla nascita di Giacobbe ed Esaù, viene riconosciuto come primogenito ufficiale Esaù. Non dimenticate che questo non è mai andata giù a Giacobbe.
La Scrittura ci racconta di un episodio avvenuto tra i due fratelli. Un giorno Giacobbe aveva preparato una minestra di lenticchie, ma Esaù, tornando da campi tutto affamato, chiede al fratello, coi suoi modi rozzi e forti, la minestra. Dice così: "Fammi inghiottire questa minestra rossa". E Giacobbe chiede cosa gli avrebbe dato in cambio. Contrattano un po' e alla fine Giacobbe fa giurare al fratello che la primogenitura è ceduta a lui.
Possibile che si possano vendere dei diritti? Entrambi i fratelli si comportano male: Esaù vende qualcosa di prezioso; Giacobbe compra qualcosa che non si può comprare. E poi, di chi era quella minestra? Non forse della famiglia? Quindi Giacobbe, in realtà, ha pagato con qualcosa che non gli apparteneva.
Giacobbe, col passare degli anni, ha tenuto bene a mente questa faccenda, mentre Esaù forse l'aveva dimenticata. Avvicinandosi la morte del padre, egli doveva confermare ufficialmente, attraverso una benedizione, chi dei fratelli doveva essere il suo successore. Isacco chiama Esaù e gli dichiara di volergli dare la benedizione ufficiale prima della sua morte e gli chiede di preparargli un buon pasto di cacciagione. Tutto questo ci lascia un po' perplessi.
Il testo ci dice che Isacco era cieco; ma non si capisce se era cieco perché aveva problemi di vista o di comprendonio. Chiede un buon manicaretto perché sta per morire, ma il testo ci dice che Isacco muore vent'anni dopo quell'episodio. Quindi non era una morte così imminente.
Ma la madre Rebecca intercetta il discorso di Isacco e Esaù ed invita il figlio Giacobbe a carpire la benedizione del fratello. Questo non perché lei preferisse l'uno all'altro; il testo ci dice più volte che Rebecca è madre dell'uno e dell'altro, ma lei ha avuto delle percezioni superiori e ha capito che l'eredità spirituale della famiglia era meglio che fosse assegnata a Giacobbe, piuttosto che a Esaù.
Vedete? Il capo è il padre, ma il regista di tutto è la madre.
La storia continua con l'inganno organizzato da Rebecca e Giacobbe, col rivestimento di pelo. Isacco sente il pelo e l'odore di animale e di sudore tipico di Esaù, ma riconosce la voce di Giacobbe. La sua superficialità, però, come quella di tutti gli uomini, non lo fa andare più a fondo, forse anche perché era irretito dal profumo dell'arrosto preparato per lui.
E così benedice Giacobbe.
All'arrivo di Esaù viene scoperto il trucco. Isacco dà una benedizione anche a Esaù, ma non è quella ufficiale. Probabilmente lui sa che se le cose sono andate così, per un disegno divino.
Per evitare le ire del fratello, Giacobbe scappa di casa e si reca dai parenti della madre, che abitavano in territorio siriano e sta lontano per ben vent'anni. Al suo ritorno, trova ancora il padre vivo.
Tornando, quando sta per avvicinarsi al territorio di Israele, presso il fiume Giordano, gli viene comunicato che suo fratello gli sta andando incontro con quattrocento uomini armati. Giacobbe si spaventa molto e prende delle disposizioni; manda dei messaggeri con regali al fratello per rabbonirlo. Divide l'accampamento in due parti, una parte presso la moglie Lea e l'altra parte presso la moglie Rachele.
La Bibbia qui ci insegna cosa dobbiamo fare quando abbiamo un grosso problema con qualcuno. Dobbiamo fare tre cose: cercare di placare il nemico; prendere gli accorgimenti per la difesa; chiedere l'aiuto di Dio. Tutte queste cose vanno fatte, non una senza l'altra.
Arriviamo la nostro episodio.

La sera la carovana arriva presso un fiumiciattolo, lo Jabbok, un affluente di sinistra del Giordano, abbastanza impetuoso.
Non entro nei dettagli, perché sarebbe troppo lungo.
Giacobbe passa lo Jabbok di notte, fa passare le mogli, i figli e tutto quello che possedeva. Ma viene da chiedersi se abbia fatto bene a far così. Perché ha fatto passare il fiume a tutti? Chi ha voluto salvare per primo, se il testo dice che ha fatto passare le mogli, le concubine e poi i figli? Io avrei fatto passare prima i figli, per salvare prima loro e poi le mogli.
Qualcuno dice che ha fatto bene così. Perché così i bambini non avevano paura di attraversare il fiume, sapendo che le loro mamme sarebbe state ad aspettarli dall'altra parte.
Il testo prosegue così: "E rimase Giacobbe da solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'alba e vedendo che non ce la faceva lo percosse all'estremità della coscia e fu indebolita l'anca di Giacobbe mentre lottava con lui".
Sembra di capire che Giacobbe fosse rimasto dall'altra parte del fiume dopo che tutti erano passati. Mentre era lì, nella notte, un tale lo assale e lotta con lui. A un certo punto questo tale si accorge di non riuscire a vincerlo e lo colpisce.
Allora dice a Giacobbe: "Mandami via, perché spunta l'alba". E Giacobbe risponde: "Non ti lascio andar via se non mi dai una benedizione". Tutto incomprensibile? Non sappiamo chi sia questo tale. Dopo che gli rompe la gamba, dice che se ne deve andare. Anzi, chiede a Giacobbe di mandarlo via. Ma Giacobbe vuole una benedizione. Non dobbiamo dimenticare cos'è successo nella vita di Giacobbe. Lui sa di avere estorto una benedizione che non gli spettava. Ha intuito che quel tale potesse essere un inviato, uno strumento di Dio e vuole la conferma della sua benedizione.
Alla domanda di Giacobbe, quello gli dice: "Come ti chiami?"; e lui: "Giacobbe". Risponde: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma ti chiamerai Israele".
Israele viene dalla radice sar-El, che vuol dire "combattere Dio".
Allo spuntare del sole "Giacobbe è zoppicante", dice il testo. E prosegue: "Per questo i figli di Israele non mangiano il nervo sciatico che è all'estremità della coscia degli animali, per ricordarsi questo episodio".
Se mi consentite, questo è un episodio molto strano.
La conseguenza della vicenda è che Giacobbe cambia il nome. Il nome Giacobbe portava in sé un elemento di "inganno". Direi che più il nome, quella notte, Giacobbe ha cambiato personalità; è avvenuta una rivoluzione nella sua persona. Giacobbe, in tutti gli anni precedenti, aveva condotto la sua vita sul compromesso, sull'inganno, cercando sempre di salvarsi dalle situazioni con una bugia, o mezza bugia; questa volta Giacobbe lotta con uno sconosciuto. Secondo il suo carattere precedente, ci saremmo aspettati che lui scappasse, e invece non scappa, sostiene la lotta, nonostante abbia avuto una lesione e addirittura è il suo avversario a dovergli chiedere di smettere, perché lui gli stava avvinghiato e lo teneva stretto. Vediamo come lui stia cambiando la personalità: non è più quello dell'inganno e del compromesso, ma quello che deve affrontare le difficoltà, guardandole in faccia.
Volevo farvi notare che il passaggio dello Jabbok, nell'immaginario collettivo ebraico post-biblico, è diventato una simbologia di un passaggio molto notevole, non tanto della traversata del fiume in sé. Giacobbe ha incontrato un personaggio che rappresentava Dio.
C'è un testo, redatto in Italia nel 1700, intitolato "Il guado dello Jabbok" ed è una spiegazione di quanto la tradizione ebraica sostiene sulla morte. Quasi a sottolineare che il passaggio dello Jabbok sta a indicare una rivoluzione copernicana nella vita dell'uomo. Alla nostra morte, c'è un passaggio enorme: da una dimensione a un'altra e questo con Dio in mezzo.
Il passaggio dello Jabbok rimanda a un cambiamento radicale, assoluto; come è avvenuto a Giacobbe, che ha cambiato carattere.
Torno indietro, per proporvi alcuni problemini, su cui si sono soffermati i nostri maestri.
Allora, in quella notte Giacobbe attraversa il fiume, fa passare tutti i suoi, ma poi lo ritroviamo ancora sull'altra sponda. Insomma, è tornato indietro. Ma perché non è rimasto con i suoi?
C'è un midrash, un'interpretazione dei nostri maestri, inventata di sana pianta, che però fa pensare e provoca. Giacobbe è tornato indietro perché aveva dimenticato delle bottigliette dall'altra parte. !! Cosa vuol dire questo? I maestri ci prendono in giro.
C'era qualcosa di non razionale che l'ha spinto a tornare indietro. Qualcuno dice che quelle bottigliette, a cui Giacobbe teneva tanto, avevano per lui un significato. Avevano contenuto dell'olio.
Vi ricordate l'episodio della visione della scala? Giacobbe, in quell'occasione, aveva consacrato la pietra su cui aveva dormito ungendola con olio. Secondo l'interpretazione di alcuni maestri, Giacobbe si sarebbe tenuto le bottigline che conteneva quell'olio, perché lo aiutassero a ricordare la promessa di protezione che Dio gli aveva fatto in quel luogo.
Vi invito a proporre un'altra interpretazione.

Torniamo alla lotta di Giacobbe con questo essere misterioso. Noi ebrei ci portiamo dietro questa storia, evitando di mangiare il nervo sciatico degli animali. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? I nostri maestri, anche in questo caso, sono in disaccordo sull'interpretazione. Sembra che quel tale abbia colpito Giacobbe all'articolazione della coscia in modo tale da causargli una lesione permanente che l'ha lasciato zoppo per tutta la vita.
Maimonide dice che la lotta di Giacobbe con l'angelo non è mai avvenuta, ma si è trattato di un sogno; Giacobbe in quella notte ha combattuto contro se stesso e la lesione che gli è rimasta è di origine psicosomatica. Maimonide era un medico e può dire questo. Una lotta talmente furibonda con se stesso, tanto che gli ha causato una lesione fisica. L'essere misterioso era Giacobbe stesso.
Invece un altro grande maestro, Moshè ben Nachman, sostiene che la lotta c'è stata, perché così sta scritto.
Io non so chi ha ragione e chi ha torto.
Ma come si spiega questa lotta furibonda di notte e, appena spunta il mattino, tutto finisce e non si combatte più? Qualcuno dice che questo episodio è tipo di tutte le lotte che intercorrono tra gli uomini, tra fratelli e, in pratica contro noi stessi; e tutte queste lotte si svolgono di notte, cioè nel periodo della nostra pseudo-civiltà. Ma quando sorgerà il sole, l'alba, allora le lotte devono cessare. Le lotte contro i nostri pseudo- avversari o contro noi stessi rappresentano il periodo buio della nostra storia, ma verrà un giorno in cui non ci sarà più guerra e capiremo che tutta la guerra del passato non ha senso.
Il testo ebraico dice, alla lettera: "Spuntò per lui il sole". Il sole è spuntato per Giacobbe?! Ma non spunta per tutti, il sole? Questo sta a significare che il sole spunterà per tutta la stirpe di Israele, rappresentata ora da Giacobbe.
Ma torno ancora indietro. Cosa vuol dire "il nervo sciatico"? Traduciamo così per disperazione, ma non sappiamo, di preciso, di cosa si tratti. Il testo dice ghid hannashé. Ghid vuol dire "membro", "organo del corpo", qualunque esso sia, un dito o un orecchio. Hannashè è intraducibile. Qualcuno invita ad andare più in profondità. Nashè non è una parte del corpo, ma viene da nashìm, cioè "donne". Quindi l'essere misterioso ha colpito Giacobbe non nel nervo sciatico, ma nell'organo delle donne, cioè quell'organo che si adopera con le donne. Così come il testo usa il termine "coscia" per indicare l'organo maschile, visto che sta fra le cosce.
Quindi l'avversario avrebbe cercato di colpire Giacobbe nella sua possibilità di procreare, a dire che non voleva ammazzare solo Giacobbe, ma anche la sua stessa stirpe e quindi ha cercato di evirarlo, perché non avesse discendenti. Giacobbe è rimasto zoppicante non nei piedi, ma ad indicare la nostra stessa storia: quante volte abbiamo dovuto perdere i nostri bambini, per persecuzioni, stermini, battesimi forzati. Pensate ai sei milioni di ebrei uccisi nella shoà, di cui 1 milione di bambini.
Questa è una teoria, ma ovviamente può non essere vera. Oppure questa interpretazione vuole insegnare altre cose ancora.
Allora questo ghid hannashé cos'è? Qualcuno dice che la parola nashè evoca una radice ebraica che significa "dimenticare". Nell'uomo esiste la facoltà di dimenticare e questo è un dono, perché a volte ci sono cose davvero da dimenticare e se così non fosse si vivrebbe nella rabbia, nella paura, nell'odio, ne risentimento. Ma grazie a Dio abbiamo la facoltà di dimenticarci.
Nella lotta Giacobbe è stato colpito nell'organo della dimenticanza, perché non potesse più dimenticare niente. E questo è vero. Noi ebrei ci ricordiamo tutto. Continuiamo a ricordarci cose del passato e le riviviamo, come se facessero parte della nostra vita.
Quando celebriamo la Pasqua, la prima cosa che diciamo è che ogni uomo deve ricordare l'uscita dall'Egitto, la Pasqua, perché è storia che appartiene anche a lui.
E quando ogni anno noi celebriamo il digiuno per la distruzione del santuario di Gerusalemme, noi piangiamo come se fosse una cosa che accade oggi.
La Scrittura stessa ci invita con forza a ricordare quello che è accaduto nel passato.
E lo stesso vale per le cose buone che sono state fatte nei nostri confronti.
E questo ci è stato imposto in quella notte di lotta tra Giacobbe e l'angelo.
Ecco perché a volte noi ebrei a volte, davanti alle situazioni, abbiamo certi atteggiamenti che agli occhi degli altri sono inspiegabili, incomprensibili.
Ma noi non riusciamo a cancellare il nostro passato, buono o cattivo che sia. Quando pensiamo al passato, noi viviamo le cose come se fossero presenti oggi.
Quando Ahmadinejad dice che vuole distruggere Israele, per noi è vero, perché è già successo e non riusciamo a prendere come scherzo certe affermazioni.
Quindi, ripeto, quello che è successo a Giacobbe in quella notte nella lotta con l'angelo, ha cambiato non solo la sua personalità e la sua storia, ma anche la nostra, la mia, come ebreo. E' vero, poi, che la vicenda di Giacobbe e del fratello Esaù è andata a buon fine, perché l'indomani mattina si sono riconciliati.
Ma rimane vero che le cose accadute in quella notte sono la quintessenza di una storia successiva e forse anche l'ombra di un passaggio più importante nella vita di ogni uomo, che è il passaggio da questa vita alla vita del mondo futuro.
Il passaggio dello Jabbok ha anche questo significato.





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