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Il mishkan - La presenza di Dio nel santuario ebraico
(Rav Luciano Meìr Caro)


Il mishkan è quella struttura che gli Ebrei hanno costruito nel deserto, perché fosse il segno visibile della presenza di Dio in mezzo a loro.
Questo argomento ci pone delle problematiche molto pesanti. Innanzi tutto nel Pentateuco la descrizione del mishkan occupa circa 450 versetti, quasi un decimo di tutta la Torah; quindi è uno degli argomenti maggiormente trattati. Dev'esserci un motivo valido, se il testo biblico, di solito così sobrio e scarno, in questo caso si sofferma in modo così particolareggiato.
Un'altra osservazione è che i 450 versetti riguardanti il mishkan sono suddivisi in due parti, separate tra loro dalla trattazione di altri argomenti. La seconda parte molto spesso è la ripetizione parola per parola di quanto era già stato detto prima.

Volendo essere molto molto attenti, sembra esserci addirittura una terza ripetizione della descrizione del mishkan e della sua costruzione.
Un altro elemento che ci dà da pensare è la presenza di una descrizione molto minuta di tutti i particolari che costituivano questa struttura; nonostante ciò, non abbiamo mai una visione d'insieme del mishkan, il tabernacolo; quindi ci sarebbe impossibile ricostruirlo a partire dal testo biblico, perché non si riesce a capire bene come fosse fatto nel suo insieme. Cioè sembra chiaro come sia costituito il singolo elemento, ma non è più chiaro come ogni elemento vada inserito nell'insieme degli altri. Il testo deliberatamente ci dice più volte che Dio si rivolgeva a Mosè con queste parole: "Dev'essere fatto così, secondo la figura che ti è stata mostrata sul monte". Quindi presumibilmente solo Mosè, mentre stava sul monte Sinài, aveva visto il modellino del tabernacolo che avrebbe dovuto costruire. Quindi ogni volta che un artigiano produceva qualche pezzo della costruzione, Mosè doveva verificare e attestare che il pezzo corrispondesse al modello divino e fosse montata nel modo giusto.
Mishkan è un termine ebraico che viene da una radice che vuol dire "residenza"; così come il termine shekinà, che anch'esso deriva dal verbo shakàn, cioè "risiedere", "abitare". La shekinà è la provvidenza divina che noi percepiamo a noi vicina.
Il mishkan era una struttura smontabile, relativamente piccola, costituita da alcuni pali, collegati da stoffe pregiate; tale struttura conteneva alcune cose. Nella parte più interna, separata da una tenda, c'era una cassetta di legno di acacia, rivestita d'oro dentro e fuori, che conteneva le tavole dei comandamenti. Ma non è per niente chiaro se si tratti delle tavole dei comandamenti o dei frammenti delle prime tavole, quelle che Mosè aveva distrutto. Qualcuno dice che c'erano gli uni e gli altri. Questa cassetta era la parte centrale del tabernacolo, il cuore. Essa era ricoperta da un coperchio, che aveva sopra due cherubini. Cosa siano i cherubini nessuno l'ha ancora capito.
Sempre all'interno della struttura, ma non al di là della tenda che separava l'arca dal resto, c'era un altare d'oro dove si offriva l'incenso, la lampada a sette bracci, la menorah e un tavolo, sopra il quale settimanalmente venivano posti dei pani. Davanti a tutto questo, stava un bacino con dell'acqua, che serviva ai sacerdoti per lavarsi mani e piedi prima di celebrare il culto.
All'esterno della struttura c'era un altro altare, su cui venivano fatti i sacrifici e ancora una tenda, che si chiamava "tenda del convegno"; sembra fosse una capannina, dentro la quale Mosè aveva dei contatti con Dio, durante i quali gli veniva comunicato cosa dovesse fare. La cosa è stranissima, perché si dice che dentro questa tenda Dio parlava con Mosè e Mosè parlava con Dio, ma in altre parti del testo si dice che Dio parlava con Mosè attraverso i due cherubini che stavano sul coperchio dell'arca.
Pare che questa tenda del convegno a un certo punto sia stata trasportata fuori dell'accampamento degli Ebrei. Allora erano due, o davvero era una che era stata trasportata?
Tutto attorno alla struttura c'era un cortile, recintato a sua volta da una palizzata, anch'essa fatta di pali collegati con stoffe pregiate. Questo era il mishkan.
Ogni volta che gli Ebrei partivano lo smontavano, per poi rimontarlo al loro arrivo al nuovo luogo. C'erano delle classi di leviti, addetti proprio al trasporto del tabernacolo, ognuno con le sue mansioni specifiche: chi smontava, chi imballava certe cose, cioè le rivestiva con stoffe o pelli in modo che non fossero viste, chi materialmente trasportava. La tradizione dice che nelle famiglie levitiche incaricate di imballare gli oggetti sacri, c'era la percentuale più alta di morti, perché loro avevano il compito di imballare, ma non dovevano guardare gli oggetti; chi veniva preso dalla curiosità e sbirciava, trovava la sua ricompensa. Se permettete, siamo nel difficile.
Aggiungo un altro elemento. La costruzione del mishkan era stata realizzata da vari artigiani, guidati da due personaggi: Bezaleél e Ooliàb. Il primo era della tribù di Giuda, la più importante e il secondo dalla tribù di Dan, la più piccola. Il sovrintendente massimo ai lavori rimaneva, però, Mosè.
Un midrash, una leggenda, dice che queste cose sono state fatte dagli artigiani guidati da Mosè, però, in realtà, tutta questa struttura si era costruita da sola miracolosamente. Altri dicono, invece che il mishkan non sia mai esistito e quindi tutte le disposizioni ad esso inerenti non sono mai state messe in pratica. Io non penso che fosse una fantasia, ma esiste anche questa ipotesi. Un altro problemino di quelli potenti è che tutta la struttura è stata realizzata con una sottoscrizione di materiali pregiati che gli ebrei hanno offerto volontariamente; si trattava di oro, argento, rame,  pelli, legnami vari, stoffe intrecciate con dei colori particolari e così via. La domanda è come potessero procurarsi tali materiali, quando erano appena usciti dall'Egitto. Dove trovavano il legno d'acacia, per esempio? E tutto quell'oro dove l'han preso? Un'altra cosa ci stupisce. Mosè ha fatto un primo bando chiedendo a chi possedesse queste cose di portarle per la costruzione; ma poi ha dovuto fare un secondo bando dicendo di smettere di portare il materiale, perché era esageratamente troppo. Immaginate oggi, se facessimo una cosa del genere? Oltre ai materiali veniva offerto anche il lavoro; specialmente le donne, che erano brave a ricamare, si prestavano.
Un altro elemento ancora più difficile è questo: il testo dice: "Mi devono fare un santuario e Io abiterò in mezzo a loro". Attenzione: Dio non dice che andrà ad abitare dentro il santuario che gli costruiranno, ma che abiterà in mezzo a loro. Il santuario è il simbolo della presenza di Dio in mezzo al popolo.
Nella Torah non c'è un prima e un dopo; cioè il testo come l'abbiamo noi non è redatto in forma cronologica; cioè chi lo legge non deve pensare che un avvenimento redatto prima sia avvenuto prima o uno raccontato dopo sia avvenuto dopo. Chi ha redatto il testo, lo ha fatto secondo altri principi. Il problema è questo. Se uno legge il testo della Torah, trova che il popolo è uscito dall'Egitto, ha attraversato il mare Rosso, è arrivato al monte Sinài dove ha luogo la promulgazione delle dieci parole; poi ci sono due o tre capitoli con una quantità di normative e finalmente l'invito di Dio a Mosè di costruirgli il mishkan. In mezzo c'è un lungo capitolo dove si parla di tante altre cose: dell'osservanza del sabato e soprattutto del fatto del vitello d'oro, con la minaccia da parte di Dio di sterminare il popolo, la supplica di Mosè che salva il popolo, la punizione dei soli colpevoli. Finito questo racconto drammatico, viene ripreso il discorso sul mishkan, in cui se ne ripete quasi parola per parola la descrizione.
Va sottolineata la presenza del fatto del vitello d'oro proprio in questo punto, racchiusa fra la ripetizione della descrizione del mishkan. In realtà sembra che il piano originario di Dio fosse che non dovesse esistere nessun mishkan; ma Dio ha deciso di concedere agli Ebrei di farsi questa struttura dopo essersi accorto (sto dicendo una fesseria: Dio non si è accorto dopo) che il popolo aveva bisogno di qualcosa di concreto, di materiale per percepire la presenza di Dio. Quasi che il mishkan fosse una medicina alla malattia infantile degli Ebrei.
In realtà alla fine dei dieci comandamenti c'è una prescrizione che dice: "Mi farai un altare di terra e lì farai tutti i sacrifici e tutte le volte che il mio nome viene ricordato, Io sarò lì e ti benedirò". Sembra che Dio volesse dire che non c'era bisogno di costruirgli chissà quale struttura, ma bastava solo un po' di terra, in qualunque luogo si trovasse il suo popolo, per renderLo presente. Questo era il progetto originale.
Tenete conto che una delle cose che il testo biblico condanna trasversalmente sono le famose bamòt, cioè le alture. In tutta la realtà cananaica c'era una diffusione spaventosa di alture consacrate; praticamente ogni 50 m. si incontrava una di queste realtà: un altare consacrato a una divinità pagana. La Torah non fa altro che invitare alla distruzione di queste alture, perché non si deve pensare che Dio sia presente solo lì dove c'è un'altura; Dio è dappertutto, è dove tu lo invochi, dove lo chiami.
Dunque il tabernacolo sarebbe una concessione di Dio alla debolezza del popolo. E poi la sua costruzione doveva essere fatta esattamente secondo il modello che Lui aveva mostrato a Mosè, per proclamare che quello che è importante è la legge di Dio. E' Dio che dà gli ordini e quindi non si devono seguire le mode, gli stili, le fantasie dei singoli. Se si costruisce un luogo per Dio, bisogna farlo tenendo presente: "Dio mi ha detto" e se mi scosto di un soffio da quello che Lui ha indicato, io sono fuori norma.
Rimane comunque il grosso problema della ripetizione di queste cose così minuziose e tecniche; perché la Torah ha voluto sottolinare in questo modo proprio questi elementi, invece di soffermarsi di più sul significato profondo? A una prima indagine la descrizione che ci viene offerta del mishkan, ci fa venire in mente la casa di Dio: c'è una stanza con un tavolo e del pane sopra - allora Dio va lì a mangiare - poi c'è la lampada, che in una casa non può mancare.
Tra parentesi aggiungo che c'è un passo che racconta di come era fatta la vasca posta all'ingresso della tenda che serviva per le abluzioni dei sacerdoti. Questa vasca era stata fatta adoperando le offerte delle donne che avevano portato i loro specchi di rame; sembra che in un primo tempo Mosè non volesse accettare queste offerte, perché erano segno di vanità femminile, ma poi le ha accettate perché frutto di una rinuncia forte da parte delle donne, che si spogliavano di un accessorio per loro importante. Il midrash interpreta anche che questi specchi avevano avuto un significato positivo, perché gli specchi servivano alle donne che erano in Egitto a sedurre i mariti; il marito che tornava la sera ammazzato dal lavoro doveva avere ben poca voglia di far l'amore con la moglie e dunque era necessario un supplemento di seduzione. Già c'era l'ordine di uccidere i figli maschi, in più la stanchezza fisica; come avrebbe potuto prosperare la stirpe ebraica? Dunque le donne avevano una funzione fondamentale per la sopravvivenza della razza. Gli specchi allora assumevano una funzione religiosa, direi.
Sembra che questo tabernacolo fosse costituito da una grande struttura quadrangolare: un cortile esterno di circa 50 m x 25 m delimitato da una palizzata; all'interno un'altra struttura identica, fatta di pali uniti da stoffe e all'interno una casetta che potrà avere avuto una dimensione di 10 x 5 m, contenenti tutti quegli oggetti che vi ho detto. Ma questa struttura era suddivisa in due parti: la parte più interna custodiva la cassetta con le tavole della Legge. Fuori stava la tenda del convegno, la vasca per lavarsi e gli altari per i sacrifici. Sembra che nella parte interna del cortile potessero entrare solo i leviti e i sacerdoti; nella parte internissima solo in sacerdoti; in quella ancora più interna poteva entrare solo il sommo sacerdote una volta all'anno, nel giorno dell'espiazione, per pronunciare certe preghiere. Se qualcuno entrava lì dentro in quella circostanza, sarebbe morto, a meno che si trattasse di un assassino; se un assassino cercava rifugio lì dentro, lo si andava a prendere, per compiere la giustizia.
C'è un passo del talmud che dice a questo proposito, immaginando Dio che si rivolge al popolo ebraico dicendo: "Sai, moglie e marito, quando ci amavamo, potevamo stare insieme anche sdraiandoci sul filo di una lama e stavamo benissimo; ora che siamo sposati da molto tempo, un letto di 30 m. non ci basta, è piccolo". Quando è finita la grande passione cominciano i problemi di sopportazione. Non so cosa volessero dire i maestri; presumibilmente questo: allorché gli Ebrei sono usciti dall'Egitto, in quel momento magico di grande adesione a Dio, non avevano bisogno di nessun tipo di spazio; il rapporto con Dio era diretto, c'era come un intreccio amoroso tra il popolo e Dio. Poi, col passare del tempo, si è sentito bisogno di fare degli spazi, di allargare.
Tutti gli interpreti si domandano quale sia il significato di tutta questa descrizione e normativa riguardante il tabernacolo.
I nostri maestri si sbizzarriscono a darci significati, ognuno puntando su un aspetto specifico. Cerco di darvi una rapida panoramica. Qualcuno dice che questa struttura rappresenta il cosmo, cioè è una specie di universo in miniatura. Quella grande vasca per le abluzioni, ad es., può rappresentare il mare; il pane rappresenta i prodotti dell'agricoltura, cioè la vegetazione; i cherubini possono rappresentare gli animali, soprattutto quelli che volano, perché la tenda che separa la parte sacra dalla parte santissima, sarebbe corrispondente alla separazione tra il giorno e la notte; poi la lampada può rappresentare gli astri. E' come se guardando questo tabernacolo, si potesse vedere l'universo. E' molto bello questo, ma io non so se le cose stanno proprio così.
Qualcuno dice, invece, che qui è rappresentato non il nostro universo, ma l'universo superiore: quella realtà che si trova assolutamente al di sopra di noi, che noi non possiamo capire e di questo il tabernacolo è lo specchio.
Qualcun altro dice che il tabernacolo, invece, rappresenta o ricorda episodi della storia ebraica o personaggi significativi.
Attraverso il numero dei pali, le misure, le distanze, si trovano spiegazioni varie. Per esempio: i due anelli con le relative stanghe che servivano per trasportare le varie parti del tabernacolo fanno pensare ai due mondi nei quali noi siamo immersi: la nostra realtà e un altro mondo che noi non conosciamo. O i 20 pali che circondavano la struttura, fanno venire in mente la storia di Giacobbe, che aveva servito 20 anni suo zio Labano per avere in moglie le sue due figlie.
O ancora si parla di 40 assi argentati: e richiamano i 40 giorni di Mosè sul Sinài o i 40 anni di Israele nel deserto.
Un'altra teoria afferma, invece, che la struttura del tabernacolo ricorda le qualità dell'uomo, le componenti dell'essere umano, le sue parti nobili e quelle meno nobili, così come nel tabernacolo troviamo oggetti d'oro, d'argento, ma anche di altri materiali meno preziosi. Per es. ci sono cinque suppellettili principali che rappresentano i cinque sensi dell'uomo; l'altare quadrato sono le quattro qualità positive che l'uomo dovrebbe avere: emunà, cioè la fede in Dio; la tzedakà, la giustizia, l'aiutare gli altri; il hesed, che è la benevolenza, la misericordia e finalmente la pazienza.
Qualcuno dice anche che questa struttura rappresenta la Torah, che è un insegnamento complesso e come complesso devo accettarlo, così com'è e devo metterlo in pratica nella sua totalità, nel suo incastro di tanti elementi messi insieme, tanto che se ne togliamo uno, casca tutto; proprio come succedeva nel tabernacolo.
Ce ne sono ancora a bizzeffe di queste interpretazioni.
Si dice anche che il tabernacolo è una rappresentazione del Sinài, sul quale era avvenuta la manifestazione clamorosa della presenza di Dio; agli Ebrei viene chiesto di costruire qualcosa che ricordasse loro quell'evento, rendendolo presente ovunque si spostassero.
Vi ho dato degli esempi. Non so se sono tutti sbagliati, o se c'è qualcosa di vero in ognuno di essi.
Volevo sottolineare anche che in tutta questa sequela di disposizioni, torna una quantità di volte l'espressione: "Farai", sempre al singolare. A un certo punto, però, questo imperativo singolare si trasforma in plurale: "E faranno l'aròn". L'aròn è la cassetta che conteneva le tavole della Legge. Quasi a sottolineare che la Torah, l'insegnamento di Dio, non è prerogativa di qualcuno, di una classe (dei sacerdoti, dei preti), ma è di tutti. Mentre il singolo oggetto deve essere fatto da chi è capace, il contenere la Torah dentro di sé, deve essere di tutti; nessuno può arrogarsi l'esclusiva proprietà della Torah, come se fosse lui l'unico a detenerla, perché è il rabbino, il vescovo, il muftì, l'imàm, ecc. L'insegnamento di Dio è di tutti: belli, brutti, piccoli, grandi, ebrei, non ebrei, e tutti siamo chiamati ad essere contenitori della volontà di Dio.
Un altro elemento importante è costituito da una serie di espressioni che ritornano nel testo e che ci ricordano i 31 versetti iniziali della Torah dove si parla della creazione dell'universo. Se leggete il primo capitolo della Genesi, troverete delle analogie di espressioni che accostano fortemente il testo della creazione al testo sulla costruzione del mishkan. Leggiamo la fine del racconto della creazione, quando si parla del settimo giorno e si dice: "Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, poiché in quello aveva cessato da tutta la sua opera che aveva creato Dio per fare". Cosa vuol dire che Dio ha creato per fare? Per fare cosa? Un'ipotesi dice che Dio ha il pallino del fare, non sta con le mani in mano, produce sempre; l'universo nel quale viviamo è una creazione continua. Dio ha creato per soddisfare il suo desiderio di fare.
Se voi guardate la fine della descrizione della costruzione del tabernacolo, alla fine del libro dell'Esodo, è detto: "Come Dio aveva comandato a Mosè, così fecero i figli di Israele tutto il lavoro e Mosè vide il lavoro ed ecco l'avevano fatto come aveva ordinato Dio, così l'avevano fatto e Mosè li benedisse". Come Dio vide e vide che era cosa buona e benedisse. Qualcuno dice che tutto questo lavoro di costruzione del tabernacolo è come uno specchio della creazione del mondo; quasi a indicare all'uomo che come Dio ha fatto l'universo, così anche l'uomo è chiamato a continuare a creare e ad aver cura di tutto l'universo creato. La mole dei versetti che riguardano questa seconda creazione, molto più ampia di quella della creazione del mondo, fa pensare che l'opera di creazione affidata da Dio all'uomo sia di un'importanza straordinaria. Lo scopo dell'esistenza dell'uomo su questa terra è quello di fare qualcosa di simile a quello che ha fatto Dio; con le nostre misere forze dobbiamo salvaguardare, custodire e completare la creazione di Dio. I nostri maestri dicono che noi dobbiamo sentirci ed essere collaboratori di Dio nell'opera della creazione.
Non è tanto importante il tabernacolo, la sua forma, le sue misure, ma è importante che noi prendiamo sempre più coscienza del nostro compito di cocreatori insieme a Dio.
Un altro elemento di dettaglio. Nell'ultima parte appare una specie di ritornello, quando Mosè deve constatare se le varie parti del tabernacolo corrispondono al modello mostrato da Dio; per 18 volte viene detto che Mosè vide che quella certa cosa era stata fatta "come Dio aveva comandato a Mosè". Io mi stupisco del fatto che la Torah, di solito così telegrafica, qui mi ripete per 18 volte la stessa cosa. Qualcuno pone l'attenzione sul numero 18, dicendo che ci ricorda due cose. Richiama la parte fondamentale della liturgia ebraica, cioè le 18 benedizioni, i 18 modi coi quali noi ringraziamo Dio. Ma il numero 18, nella sua scrittura, è costituito da una iod e una chet - ??- che, se letto al contrario diventa chai - ?? - che significa "vita", quasi a dire che la nostra vita deve essere uniformata a queste indicazioni. Quello che vi sto dicendo è molto bello e affascinante, ma in realtà noi non sappiamo come le cose siano veramente, perché questa descrizione ci pone una serie di problemi, dai quali non riusciamo a venir fuori.
Ho dimenticato un'altra cosa. Ci sono delle disposizioni molto precise sugli abiti dei sacerdoti deputati al culto, alla gestione di tutto questo ambiente e delle sue suppellettili. Spesso capita che lo stesso sacerdote, incaricato di fare due cose, deve cambiarsi l'abito, perché quello adatto per una mansione, non lo è più per un'altra. Anche questi abiti non sappiamo bene come funzionino, come fossero veramente confezionati. Perché il vestito è così importante? Si dice che un sacerdote che presti il culto senza l'abito giusto, è passibile di morte. Ma possibile? Ci sono delle cose molto più importanti di queste! Di qui nasce tutta la riflessione sul valore dell'abito nella nostra tradizione. L'abito emerge come quell'elemento che distingue l'essere umano da tutti gli altri esseri viventi; fra tutti gli animali che Dio ha creato, l'uomo è l'unico che si veste. Non solo, ma bisogna sottolineare che il primo vestito fatto all'uomo, fu confezionato da Dio; è Dio il primo sarto della storia. Non sarebbe stato più importante che Dio insegnasse all'uomo a fare il fuoco, a lavorare la materia? No; Lui ha voluto insegnarci a vestirci.
Non dimenticate che ci sono delle cose non solo incomprensibili in tutta questa narrazione e descrizione, ma che sono dei veri pugni nello stomaco. Mi soffermo solo brevemente sulla storia dei cherubini. Abbiamo detto che c'è l'arca, fatta di legno ricoperta di lamine d'oro e che contiene le tavole della Legge; sopra sta un coperchio, anch'esso ricoperto d'oro e su di esso due cherubini. Ma cosa siano non lo sappiamo. Il testo parla ambiguamente di queste due strutture che hanno le ali che si incontrano al di sopra di loro e si guardano l'una con l'altra. Noi interpretiamo che si tratti di due figure umane poste una di fronte all'altra. Ma proprio questo è un pugno in un occhio, anzi un pugno in due occhi! Ma come?! Nelle tavole della Legge si dice che non dobbiamo fare immagine o scultura di qualsiasi essere e poi qui compaiono due forme umane? Prima di tutto, il testo biblico non dice che si tratti di forme umane; dice che sono due strutture che si guardano - ma anche di due libri posti uno di fronte all'altro si dice che si guardano - e poi che hanno le ali, ma non è detto che siano necessariamente ali nel senso inteso da noi.
Un'interpretazione suggerita dal nostro grande Cassuto, un grande rabbino italiano che ha fatto degli studi sulle tradizioni e le civiltà contemporanee agli Ebrei del tempo biblico, quindi le civiltà mesopotamiche, accadiche, numeriche, ecc., dice che i cheruvìm non sono delle statue, ma sono una rappresentazione di quella espressione che ogni tanto torna nel testo biblico e che dice che Dio siede sui cherubini. Cosa vuol dire che Dio siede sui cherubini? Cassuto propone che il termine cherùv non rimandi a cherubini, ma sia una deformazione di un termine semitico antico che stia a indicare le nubi; una rappresentazione delle nuvole, al di sopra delle quali sta Dio. Come un invito alla gente a guardare verso l'alto, al di là della realtà.
Un'altra ipotesi più folle e che mi piace molto dice che si tratta in realtà di due figure umane che si guardano e dietro queste due figure c'è un insegnamento importantissimo. Il significato principale della Torah è una lotta senza quartiere contro l'idolatria e idolatria vuol dire attribuire delle qualità divine a qualcosa che non è Dio, sia un oggetto, sia un animale, una persona, un'immagine, una montagna, ecc. Tutto il testo biblico è attraversato da questa lotta. Qualcuno allora dice che i due cherubini in forma umana, vogliono dire che non bisogna nemmeno idolatrare il divieto di idolatria, per quanto importante sia. Nemmeno quello è assoluto, perché l'unica realtà assoluta è Dio.
Qualcuno va più in là e propone di riportare la riflessione alla nostra realtà: quei due cherubini sono proprio due figure umane che si guardano e rappresentano la nostra posizione nel mondo. Noi dobbiamo avere un partner col quale guardarci negli occhi. Noi viviamo in una società e se vogliamo veramente mettere in pratica la Legge di Dio, da soli non possiamo farlo; dobbiamo confrontarci con l'altro e in lui riconoscere noi stessi, perché siamo uguali. Soltanto insieme noi due, col rispetto massimo l'uno per l'altro, considerando che siamo uguali, possiamo realizzare la volontà di Dio che sta scritta nella Torah.








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