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L’ultima delle dieci parole: Non desidererai
(Rav Luciano Meir Caro)

Il tema di questa conferenza è il comandamento “Non desidererai”; dico comandamento non perché sia questa la parola più corretta, ma perché si usa chiamarli così, sebbene il termine più corretto sarebbe “le dieci parole”, dieci emissioni della voce di Dio. Sul Monte Sinai Dio si è rivelato al popolo ebraico e mediante esso all’umanità e si è rivelato usando dieci espressioni della sua voce. Definire queste emissioni della sua voce come comandamenti, è un po’ arbitrario e riduttivo; potremmo dire che sono dieci principi di carattere generale ai quali ogni società dovrebbe ispirare i propri comandamenti. Ma non lo facciamo, perché non ci conviene.
Non entro in problemi di carattere esegetico. Per es. sappiamo che esiste una suddivisione diverse delle dieci parole nel mondo ebraico e nel mondo cristiano; distinguere queste dieci parole le une dalle altre ci porta una serie di difficoltà.
Queste dieci parole sappiamo che furono scritte su due tavole di pietra; sulla prima tavola vengono scritte le parole che dovrebbero regolare i nostri rapporti con Dio e sulla seconda quelle che riguardano i nostri rapporti con gli altri simili.
Questo brano in cui compaiono le dieci parole, faceva parte, un tempo, della liturgia ebraica, ma poi è stato omesso, perché la gente non pensasse che i dieci comandamenti sono necessari, mentre tutto il resto è un di più, mentre la rivelazione divina è tutta importante.
Bisogna dire che poi, nel corso dei secoli, il significato vero e vivificante delle parole è stato male interpretato, come per es. il sabato, che è diventato il giorno festivo per la dottrina cristiana. Ma queste sono polemiche che non ci interessano.
Se però ci soffermiamo a considerare la prima e l’ultima parola, ci accorgiamo subito che esse possono davvero lasciarci strumenti validi per saper comprendere le cose. La prima parola è questa: “Io sono l’eterno tuo Dio, che ti ha tirato fuori dalla terra di Egitto”. E l’ultima parola dice così: “…  non desiderare nulla di ciò che appartiene al tuo prossimo”. Tutta l’umanità dovrebbe essere capace di relazionarsi in tutte queste dimensioni: verso Dio e verso il prossimo. Non si può pensare solo a Dio e ignorare completamente il prossimo.
Vorrei sottolineare, nella disamina di questo ultimo comandamento, che secondo la dottrina ebraica, ognuno di noi ha il diritto e il dovere di affrontare lo studio del testo biblico, ricavandone tutto quello che ciascuno ritiene di farne scaturire, applicandolo con grande correttezza. Io leggo un testo, ne ricavo qualche cosa e ho il diritto e il dovere di farlo, anche se la mia interpretazione si discosta dalla interpretazione ufficiale. Purché sia animato da un sentimento di correttezza; cioè non devo voler portare il testo alla mia misura, ma lasciarmi coinvolgere dal testo in tutte le mie facoltà, dando principalmente importanza alla correttezza. Io voglio capire qualcosa di più! Questo è lapalissiano.
Ma c’è un altro discorso. Stabilito che ognuno di noi ha il diritto e dovere di studiare il testo, quando dal testo si vuole ricavare la normativa, non siamo più così liberi, ma dobbiamo inventare delle norme che ci insegnino a estrapolare la normativa da un testo che a volte è straordinariamente vago.
Perché se non facciamo così, ne risulta che ognuno di noi inventa una legge a suo uso e consumo.
Prendiamo per es. la legge che dice: “Onora tuo padre e tua madre”. Se io interpello 100 persone e chiedo loro come si fa a onorare il padre e la madre, credo che avrò 100 risposte diverse, che dipendono dall’indole, dal rapporto personale di ciascuno coi genitori, dal momento storico in cui si è, perché certamente il modo di rispettare i genitori oggi è diverso da quello di 50, 100 anni fa.
Quindi quando si tratta di estrapolare dal testo biblico una norma cogente per tutti, noi siamo vincolati a delle regole. Queste regole sono state originariamente definite in 13 punti, poi diventati 32.
Se affronto il testo del passo biblico sui comandamenti, se il mio scopo è quello di capire cosa dice il testo, allora sono libero di adoperare tutte le mie facoltà intellettuali; ma se il mio scopo è quello di capire cosa devo fare per metterli in pratica, devo riferirmi a delle regole precise, logiche e codificate nel corso dei secoli.
Una di queste regole, per esempio, dice che non si può estrapolare un passo dal proprio contesto, perché altrimenti si violenta il testo.
Per es. prendiamo il passo che dice: “Non uccidere!”. Cosa vuol dire non uccidere? Se io estraggo una parola di questo comandamento e ometto di leggere il “non”, allora faccio dire al testo biblico: “Ucciderai”. Arrivo alla conclusione esattamente contraria!
Un’altra regola: quando sono davanti a un testo che mi presenta delle difficoltà tali che non mi permettono di interpretare il testo, allora devo ricorrere alla legge della analogia, che è anche quella di carattere semantico, cioè delle parole. Trovo un termine e non capisco come posso collocarlo, non capisco come in realtà devo comportarmi secondo il passo che sto leggendo, allora devo andare a cercare altri passi biblici in cui compare lo stesso termine e così posso avere indicazioni su come interpretare quel determinato passo che sto leggendo.
Se prendiamo in considerazione, per es. il passo che dice: “Non fare falsa testimonianza”, come dobbiamo interpretarlo? E’ generico! Si sta parlando di una testimonianza di carattere giuridico? Si sta parlando di un processo? O della vita in senso generale?
Allora come mi devo comportare quando non c’è la regola generale, mentre c’è una serie di dettagli. Per es, nel caso in cui la Bibbia dice di non mangiare tale e tale tipo di carne?
Insomma, noi dobbiamo elaborare una legge che sia uguale per tutti.
Prendiamo un esempio dai comandamenti della prima tavola, diciamo così. “Non pronuncerai il nome di Dio invano”. Che cosa vuol dire? Il verbo qui usato può voler dire: pronunciare, parlare, sollevare. Cosa vuol dire “sollevare il nome di Dio”? E cosa vuol dire “invano”? Qualcuno traduce “falsamente”; ovvero: Non coinvolgere Dio in una dichiarazione inutile e banale.
Quando diciamo “Oh Dio”, parlando, stiamo contravvenendo al comando. La legge mi dice di parlare di Dio con molto rispetto e non trascinarlo in discussioni banali, oppure mi vieta di adoperare il nome di Dio falsamente, per es. giurando il falso? Si discute di questo!
Un altro esempio eclatante lo prendiamo dalla seconda tavola, che comincia: “Non ucciderai” e poi: “Non commetterai atti impuri”. Cosa sono gli atti impuri? In ebraico significa non commettere atti proibiti dal punto di vista dell’attività sessuale. Cioè è proibito avere rapporti sessuali con determinate categorie di persone.
Poi va avanti: “Non rubare” e  poi “Non fare falsa testimonianza”; poi si va avanti: “Non desiderare”.
Tenete conto del fatto che i comandamenti compaiono nella Bibbia in due versioni. La prima è quella originale, quando gli Ebrei si trovarono ai piedi del monte Sinài e lì comparve il Signore Dio, che enunciò questi comandi.
E la seconda versione compare nel Deuteronomio, quando Mosè li ripete al popolo di Israele alla fine del viaggio e li ripete quasi con le stesse parole, ma con alcune modifiche; alcune di scarso valore, altre pregnanti.
Vi invito ad andare a rileggere i due testi voi stessi e trarre voi le vostre considerazioni personali, senza andare a cercare i commenti fatti da altri.
Una delle modifiche più eclatanti, per es. riguarda il sabato. Nella prima stesura è detto: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai tutte le tue opere e il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore tuo Dio; non farai nessun tipo di lavoro tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il tuo animale e lo straniero che abita nelle tue città, poiché in sei giorni Dio fece il cielo e la terra, il mare e tutto quello che contengono e ha cessato nel settimo giorno. Per questo Dio ha benedetto il settimo giorno e l’ha santificato”.
E’ chiaro, no? Non bisogna lavorare, perché bisogna ricordare la creazione del mondo.
Leggo la versione del Deuteronomio, quando Mosè la ripete prima di morire e vedo che dice così: “Osserva il giorno del sabato per santificarlo”; mentre nella prima versione diceva. “Ricorda il giorno del sabato”. Tra ricordare e osservare c’è una certa differenza! Quindi, cosa devo fare, come devo applicare questo comando: devo ricordare o devo osservare, facendo qualcosa di specifico?
Poi prosegue: “Come ti ha comandato il Signore tuo Dio: sei giorni lavorerai e farai tutte le tue opere, ma il settimo giorno è il sabato, in onore dell’Eterno tuo Dio. Non farai nessun tipo di lavoro, tu, tuo figlio, la tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il tuo bue, il tuo asino e tutti i i tuoi animali. Ricordati che fosti schiavo nella terra d’Egitto e Dio ti ha tirato fuori di là con mano forte e braccio potente; per questo ti ha comandato di mettere in pratica il sabato”. Ha cambiato completamente panorama: si fa il sabato per ricordare che siamo stati schiavi in Egitto, mentre la prima versione richiamava il ricordo della creazione dell’universo.
Il comandamento di cui dobbiamo parlare ora è ancora più problematico. Vi pongo i problemi e non vi do le soluzioni, perché non le ho; bisognerebbe interrogare direttamente il Signore Dio per sapere che cosa Lui voleva dirci. Comunque anche nel caso di questo ultimo comandamento vi leggo entrambe le versioni. La prima, quella dell’Esodo, dice: “Non desidererai la casa del tuo compagno, non desidererai la moglie del tuo compagno, il suo servo, la sua serva, il suo bue e il suo asino e qualunque cosa appartiene al tuo compagno”. Ecco, qui dà delle esemplificazioni; ma non bastava dire che non bisogna desiderare qualunque cosa appartenga al nostro compagno? Invece il testo dice proprio così.
Ma passiamo alla seconda versione. Qui non troviamo più lo stesso verbo “desiderare”, ma un altro verbo che significa sì desiderare, ma in un modo diverso. Un po’ come nell’italiano, dove abbiamo, oltre a desiderare, per es. bramare, aspirare a, tendere a. Mosè ha dimenticato quel verbo? O voleva usare proprio un altro verbo? E dice: “Non desiderare la casa del tuo compagno, il suo campo, il suo servo, la sua serva, il suo bue e il suo asino e qualunque cosa appartiene al tuo compagno”. Qui non c’è più la moglie! Perché questi cambiamenti? Perché la Parola di Dio usa termini diversi?
Ma io vorrei porre una questione ancora più forte, che sta ancora più a monte: come fa un testo giuridico proibirci il desiderio, che è una cosa insita nell’uomo? E’ Dio stesso che mi ha creato in modo tale che io desidero le cose che non ho. E se non ci fosse il desiderio di possedere quello che non abbiamo, credo che saremmo ancora nello stadio delle pre palafitte! Una buona parte di ciò che l’uomo ha inventato e prodotto sulla terra lo ha fatto o per spirito di ricerca, ma molto spesso lo ha fatto per conseguire quanto non aveva. Questo desiderio è stato messo da Dio dentro l’essere umano.
Ma poi continuo a chiedere: come si fa a proibire un desiderio? Posso vedere una bellissima auto o una donna e può piacermi e se nego che mi piace, dico una bugia! Insomma, come può una norma disciplinare i desideri? A prescindere dai piccoli particolari che abbiamo cercato di mettere in evidenza prima, come la differenza tra i verbi, questa cosa per me è ancora più sostanziale.
I maestri, per es., dicono che il primo verbo, lo tachmod, vuol dire desiderare in maniera generica; mentre il secondo vuol dire desiderare una cosa vedendola. Vedo una bella macchina e nasce in me il desiderio specifico di avere quella determinata macchina.
Vi dico quella che è la soluzione a questo problema, data dal punto di vista normativo, anche se, in verità, non è una soluzione. Perché sempre, quando accostiamo un testo, dobbiamo chiederci se vogliamo imparare una legge, una norma, oppure se voglio imparare altro.
Allora, dal punto di vista della normativa, noi impariamo, da questa espressione, che non è proibito desiderare, ma è proibito desiderare le cose al punto di prenderle. Non esiste una proibizione del desiderio, se questo desiderio non è accompagnato dall’azione. Cioè vuol dire non fare nulla per soddisfare il tuo desiderio di appropriarti di una cosa che appartiene a un altro.
E se quella cosa non appartiene a nessuno, come devo fare? Faccio un esempio: se vado a casa di qualcuno e gli sottraggo una bottiglia di acqua minerale, commetto un furto. Ma se vado al mare e prendo una bottiglia di acqua di mare e me la porto a casa, quello è un furto? Forse no. Ma se io faccio una canalizzazione e faccio arrivare l’acqua di mare fino a casa mia, perché mi fa comodo, questo è un furto o no? Il furto è collegato con la quantità o col concetto? Su questo non si entra, nel testo.
Al di là di ciò, ripeto, i nostri maestri dicono che sul piano normativo impariamo non la proibizione del desiderio, ma la proibizione dell’appropriarsi. Il che corrisponde al “non rubare”. Ma il “non rubare” elencato prima del “non desiderare” non è assolutamente interpretato come divieto di furto. Dovete sapere che nell’ebraico il termine lignov, rubare, significa sottrarre qualcosa che appartiene a qualcun altro, ma significa anche sottrarre la libertà a qualcuno, cioè il rapire. I nostri maestri fanno queste osservazioni e sottolineano soprattutto la necessità di non togliere una espressione dal suo contesto. Infatti la serie dei comandamenti comincia dicendo delle cose particolarmente gravi: omicidio, incesto e subito dopo non può esserci il furto, ma piuttosto il rapimento. Quindi sarebbe così: è proibito sottrarre al prossimo la vita, è proibito sottrarre la vita familiare, è proibito attentare alla libertà del prossimo; poi è proibito attentare alla onorabilità del prossimo, giurando il falso contro qualcuno e alla fine, come ultima cosa, è proibito rubare le cose del prossimo.
Sul piano della tutela dei diritti umani, l’interpretazione mi pare molto logica. Cioè vogliamo difendere prima il diritto alla vita, secondo alla famiglia, terzo alla libertà, quarto alla immagine personale, al prestigio e finalmente il diritto al possesso, agli averi.
Quindi “non desiderare” è interpretato come proibizione di prendere. Ed è usato il verbo “desiderare” perché il testo biblico vuole suggerirci che fin dal momento in cui cominciamo a desiderare qualche cosa, dobbiamo fare attenzione a non muoverci nell’ottica di prendere quella certa cosa che stiamo desiderando.
Facciamo degli esempi. Si può rubare qualcosa a qualcuno, sottraendoglielo senza la sua volontà. Voglio comprare qualcosa da qualcuno; posso rubargliela e così ho esercitato la mia pulsione, il mio istinto. Ma posso anche esercitare una forma di pressione indiretta nei suoi confronti, affinché egli acconsenta a darmi quella certa cosa.
Facendo questo, io contravvengo alla legge.
Ma non discuto sulla legge. Piuttosto mi chiedo se non posso interpretare il passo in un’altra ottica ed è il problema che ci poniamo noi. Come si fa a disciplinare un desiderio, a eliminarlo? E’ un qualcosa, questo, che potrebbe essere addirittura interpretato come una violenza fatta a Dio che ci ha creato in un certo modo.
Oppure si richiede all’essere umano un tale livello di moralità che lui è talmente convinto che non possiamo appropriarci di qualcosa che appartiene a un altro, che, in forza di ciò, nemmeno desidera qualcosa!
Nell’antica tradizione ebraica ci sono degli esempi. Un contadino intravvede la figlia del re e lei è talmente bella, splendida e sente che poterla avere è qualcosa di assolutamente irrealizzabile e perciò questo contadino non mette in atto nessun tipo di ragionamento o azione per arrivare ad averla.
Un tale, Icaro, che vorrebbe volare, sa che non può farlo assolutamente e perciò nemmeno lo desidera.
Ma torno sulla domanda: perché la Scrittura ha bisogno di fare degli esempi concreti, perché dice la casa, il bue, ecc? Vuol dire quelle cose e altre no?
Premesso che tutti sono d’accordo che da questo ultimo comandamento deriva la norma della proibizione del rubare, ma che si applica soltanto allorché c’è un’azione concreta e precisa, se invece uno va oltre e ruba, cosa fa il Signore Dio? La risposta è che Lui stesso ha una serie di modalità per intervenire e punire chi Egli ritiene degno di punizione, senza il bisogno assoluto dell’intervento di un tribunale umano.
Poi ci sono gli spiriti belli, che sono a un livello superiore di moralità, che non fanno parte dei comuni uomini. Si raccontano alcuni episodi riguardo un grande maestro, che prima di morire guarda dalla finestra e vede degli spettacoli della natura particolarmente belli e dice così: “Universo, quanto sei bello e luminoso e fonte di pensieri elevati per chi è lontano da te e quanto sei pieno di oscurità per chi ti insegue”. Cioè se noi cerchiamo di ottenere a tutti i costi le cose che ci stanno attorno, ci ritroviamo nell’oscurità; invece se contempliamo l’universo e lo consideriamo una cosa bella in se stessa, sulla quale non abbiamo alcun potere, questo mi dà pace.
Un esempio più pratico, preso dal modo del chassidismo, circa 200 anni fa. Si racconta di un signore che aveva ereditato il tallit del suo maestro morto e tanti avrebbero desiderato ardentemente pregare usando quel manto. A un certo momento, un ricco signore manda il suo servo dalla vedova del grande maestro morto per comprare quel manto di preghiera a qualsiasi prezzo. E così avviene. Una volta giunto dal ricco signore, il garzone gli confessa di avere avuto più volte il desiderio di comprarlo lui stesso per sé e tenerselo. Allora il ricco maestro gli dice: Tienitelo pure, perché io non voglio avere a che fare con un oggetto che è stato strumento del fatto che tu potessi contravvenire al comando divino. Per me non è più un oggetto consacrato.
Ma questo riguarda degli strati di popolazione che sono al di sopra degli altri; la gente normale non ragiona così!
Rimane il problema, adombrato anche dagli studi della cabbalà, ma non solo. Se Dio ci voleva così perfetti, perché ci ha creati così, con queste pulsioni dentro di noi? La risposta del Talmud e dei maestri della cabbalà è che scopo dell’uomo potrebbe essere o è, secondo i punti di vista, adoperare l’istinto del male che è dentro di noi finalizzandolo al bene. Noi abbiamo degli istinti negativi, che Dio ci ha dato forse per metterci alla prova. C’è questa osservazione: se non ci fosse l’istinto cattivo, la gente non si sposerebbe, non avrebbe figli, non costruirebbe. Una buona parte di quello che facciamo, lo facciamo per un senso di possesso, per realizzare un desiderio che abbiamo. Questo vale per il matrimonio, per i figli, ecc.
Se riusciamo a indirizzare le nostre pulsioni negative verso il positivo, noi realizziamo il piano di Dio, che voleva questo, sì, ma vuole che ci arriviamo noi. Non dobbiamo aspettarci da Dio che Lui intervenga nelle questioni umane. Qui c’è la grande differenza tra la dottrina ebraica e quella cristiana riguardante il Messia. Non voglio dare dei giudizi, ma solo cercare di capire la differenza. La dottrina ebraica sostiene che Dio ha creato l’uomo in un certo modo e l’ha voluto soprattutto dotato di libero arbitrio; l’ha creato con difetti e pulsioni e poi ha introdotto nell’uomo una particella di Se stesso, chiamatela anima, o coscienza o come volete. L’uomo, a livello personale e a livello globale, deve fare tutti gli sforzi perché quella parte divina che ha in sé abbia la prevalenza sulla sua parte negativa, ma questo deve farlo da solo. Dio gli ha dato degli insegnamenti e l’uomo, con le sue forze, deve avvicinarsi a Dio. Noi ebrei abbiamo l’ardire di pensare che, prima o poi, tutti gli uomini riusciranno a raggiungere questa meta e sapranno dare la preferenza alla parte spirituale che portano in sé e quindi potranno dare vita a una società fondata sulla giustizia, la pace universale, ecc. Ma tutto questo deve avvenire prescindendo da Dio, con gli strumenti che Egli ci ha dato.
Invece il mondo cristiano, invece, - ma non voglio dire delle sciocchezze; confrontatevi con chi ne sa più di me! -  parte dal presupposto che Dio ha creato l’uomo e fin qui siamo d’accordo, gli ha dato  degli insegnamenti e anche qui siamo d’accordo, ma a un certo punto si è accorto che le cose non funzionavano e quindi occorreva un altro intervento da parte sua per redimere l’umanità e quindi ha mandato suo figlio, una parte di Se stesso, perché assumesse una parte dei peccati della gente, pagasse di persone e aprisse la strada a un vero miglioramento. Noi questa cosa non riusciamo ad ammetterla, perché se venisse qui il Signore e mi dicesse: Tu sei il Messia, io direi che a me non interessa, perché non è questo che mi aspetto; non mi aspetto che l’era messianica mi sia proposta da qualcuno o mi sia imposta, ma mi aspetto che provenga da me. Quale sia, poi, la verità assoluta io non lo so! Questa è la differenza. Ci sarà un intervento di Dio e non ha bisogno del mio permesso, ma la nostra visione è che noi, attraverso le forze del male che abbiamo dentro, dobbiamo cercare di convogliarle verso il bene. Se leggete con attenzione questo è anche il messaggio che scaturisce dal primo capitolo della Genesi, che parla della creazione del mondo e dell’uomo. Ma bisogna leggerlo, però, con attenzione e senza commenti, perché i commentatori cercano di indirizzare in una direzione piuttosto che in un'altra.
Il testo della Genesi dice che Dio ha creato l’essere umano e ne ha fatto quello che noi chiamiamo Adàm kadmòn, cioè il concetto dell’uomo e l’ha creato in modo tale che sia parte della creazione del mondo e un suo avversario. L’uomo, in tutto il suo percorso nella storia del mondo, si è sempre messo contro Dio. La provocazione è proprio questa: la spinta a recuperare le energie positive.
Dio ha creato l’uomo e in seguito la donna e li ha posti nel giardino di Eden e là non avevano bisogno di fare nulla. Il lavoro è stato introdotto come punizione per la disobbedienza. Dio ha dato l’ordine ad Adamo ed Eva di non toccare e non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Cosa vuol dire? Che chi mangiava quel frutto imparava la differenza tra il bene e il male. Ma Dio dà un ordine a un essere che non ha conoscenza di bene e male. Come si fa a dare un ordine a chi non sa che disubbidire è male? E’ come l’esempio del bambino piccolissimo, di tre mesi e gli dico di non mettersi le dita nel naso, ma lui non può capire nulla e quando lo fa, io gli do una sberla. Non è una grande contraddizione, questo?
Comunque Dio pone Adamo ed Eva in Eden per lavorare e custodire il giardino. Ma il lavoro viene inventato dopo? E custodirlo da che, da chi? L’unico che poteva fare danni era l’uomo stesso.
Una particolarità. La parola gan, giardino, è maschile, mentre nel testo l’oggetto del lavoro e della custodia è al maschile. Dio ha posto l’uomo nel giardino per lavorarla e custodirla! Qui c’è un mistero.
Se si torna indietro, al primo capitolo della Genesi, a un certo punto il testo dice: “Dio cessò nel settimo giorno… tutte le opere che Dio aveva creato per fare”. Cosa vuol dire? Non lo so. Si può intendere in tanti modi.
Dio crea perché una delle connotazioni di Dio è quella di creare sempre. Dio è uno che vuol fare. Ma in tal modo, noi attribuiamo a Dio delle connotazioni umane.
Un’altra interpretazione dice che questa espressione: “per fare” significa altro. Cosa vuol dire fare, in italiano? La mistica ebraica dice delle cose che forse in parte sono vere.
La creazione è avvenuta in tante fasi. “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Prima Dio ha pensato alla creazione, poi ha realizzato il progetto: ha pensato, ha creato la materia, poi ha dato la forma a tutte le cose, fino all’uomo. Successivamente ha consegnato tutto all’uomo, perché facesse. Ecco cosa significa quel “per fare”. E’ l’uomo che deve elaborare il tutto, custodire ciò che Dio gli ha affidato, deve occuparsi dell’universo. Questa è la responsabilità dell’uomo nella conservazione della creazione. L’uomo dovrebbe diventare quello che i nostri maestri chiamano “socio, collaboratore di Dio nella creazione”. Dio ha creato, ha dato all’uomo le istruzioni, perché il piano della creazione deve andare avanti.
Probabilmente questa non è la soluzione, ma dobbiamo pensare a queste cose.
La prima cosa che Adamo fa è disobbedire; la seconda cosa che fa è l’uccisione del fratello. Come sceneggiatura è abbastanza scoraggiante!

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