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Non ruberai
(Rav Luciano Meir Caro)


Vorrei cominciare con una piccola storiella riguardo i dieci comandamenti, una storiellina che si rifà niente meno che al Talmud. E parte con una domanda, che più o meno suona così: "Come mai il messaggio delle dieci tavole, il messaggio sinaitico è stato rivolto proprio agli Ebrei?". Ovviamente non vogliamo qui affrontare il discorso teologico che viene innescato da una tale domanda, ma ci soffermiamo sull'ironia, che interviene nella storiella. Si immagina, così, che il Santo, benedetto Egli sia, prima di rivolgersi agli Ebrei, abbia rivolto la proposta dei comandamenti ad altre popolazioni, anche tenendo conto del fatto che i comandamenti erano incisi su due tavole. Ma perché due? Non ne bastava una?, viene da chiedersi. O perché non dieci, allora? Ovviamente sono domande abbastanza sciocche. Comunque la storiella racconta che Dio si sia rivolto ai tedeschi, chiedendo se volessero i dieci comandamenti. E loro: "Ma cosa c'è scritto?"; alla risposta: "Non uccidere", avrebbero detto: "No, lascia stare"; allora si è rivolto ai Francesi e loro: "Ma cosa c'è scritto?"; alla risposta: "Non desiderare la donna d'altri", avrebbero detto: "No, grazie!". Allora si è rivolto agli Italiani e ancora: "Cosa c'è scritto?"; alla risposta: "Non rubare", la reazione è stata sempre la stessa. A questo punto Dio si è rivolto agli Ebrei, per disperazione, ma questi avrebbero chiesto: "Quanto costano?" E Dio: "Niente, sono gratis" e di rimando: "Allora me ne dia due!". Questo solo per farci una risata, senza offesa per nessuno! Questo racconto si inserisce bene nella autoironia ebraica, che fa parte della nostra cultura. Aggiungo ancora un brevissimo racconto, sempre sulla stessa scia, secondo cui ci sono tre matti o pseudomatti, che chiacchierano tra di loro. Il primo dice di essere la persona più importante del mondo, perché ha dato origine alla Rivoluzione Francese, che ha cambiato la storia dell'Europa e del mondo e l'altro afferma, invece, di essere lui la persona più importante, perché ha ricevuto i dieci comandamenti dalle mani di Dio. Allora il terzo interviene, chiedendo incuriosito e stupito: "Cos'è che ti avrei dato, io?".
Prima di soffermarmi brevemente sul comandamento che dobbiamo affrontare in questa sede, vorrei recuperare alcune informazioni più generali, che ritengo utili. In realtà ne abbiamo anche già parlato in passato, ma non guasta riprenderle.
Intanto vorrei dire che la terminologia corrente di "dieci comandamenti" non è corretta, perché, in realtà non sappiamo se sono dieci e se sono comandamenti. Ci sono anche diatribe di carattere teologico, che mettono in campo domande su quale sia il primo, o se alcuni debbano essere raggruppati. Il testo ebraico non adopera mai l'espressione "comandamenti", ma li chiama "le dieci parole - hasseret dibberòt"; sono dieci emissioni della voce di Dio, che avrebbe enunciato determinate cose, ma non necessariamente comandamenti.
Anche in campo teologico ebraico c'è una grande discussione su quale debba essere il primo comandamento. Noi siamo soliti dire che il primo è: "Io sono il Signore tuo che ti ho fatto uscire dalla terra di Egitto, dalla casa degli schiavi". Ma c'è chi dubita sul fatto che questo sia un comandamento e afferma che altro non è che un'autopresentazione che Dio fa di se stesso. A una lettura superficiale, sembra che qui Dio non ci comandi niente. Un grandissimo filosofo ebreo, vissuto attorno al 1300-1400, un certo ?asday Crescas (1340-1410) , afferma che chi sostiene che Dio, con queste parole, vuole imporci qualche cosa, sbaglia. Se è così, ne risulta che i comandamenti sono nove. Invece Maimonide, altro grande filosofo, vissuto duecento anni prima, sostiene che anche questo è un comandamento, perché di qui ricaviamo l'obbligo di credere in Dio. Ma non tanto di credere, perché credere non può essere un obbligo; piuttosto si tratta di conoscere che esiste Dio. E' importante non tanto credere, ma guardarsi attorno, studiare, osservare la natura e le sue leggi, perché in questo modo non si può non arrivare alla conclusione che deve esserci una mente superiore che ha creato tutto.
L'ultimo comandamento, poi, lascia ancora più perplessi: "Non desiderare … la casa, il campo, la donna del tuo compagno". Ma che razza di legge è mai questa, che impedisce, proibisce di desiderare? Pensare che il sapere che Dio proibisce qualcosa, faccia cessare anche il desiderio, è un po' un'utopia, perché il desiderio fa parte della natura umana; Dio stesso ha instillato dentro di noi il desiderio. E' connaturato nella nostra essenza, cercare di avere ciò che non abbiamo e che, in particolare, hanno gli altri; l'importante è non far del male per ottenere ciò che desideriamo.
Quindi, se è così, i comandamenti diventano otto!
I nostri maestri ci hanno abituati a studiare ogni passo biblico da tutte le angolazioni possibili e impossibili. Cioè dobbiamo esaminare il testo per quello che dice, per quello che non dice, ma che ci fa intuire, dalla composizione del testo, cioè quante parole e quante lettere ci sono in un testo. Se partiamo dal presupposto che ci troviamo davanti alla Parola di Dio, allora sappiamo che da questa Parola devono scaturire infiniti insegnamenti. E, attenzione!, non c'è nessuno tanto lontano dal testo biblico, quanto chi dice di averlo capito. No, non l'hai capito! Studia e sicuramente troverai sempre nuovi elementi che ti fanno crescere.
Sapete che del testo dei cosiddetti dieci comandamenti, nella Bibbia ebraica esistono due versioni diverse: la prima è quella del libro dell'Esodo, che è quella originale; poi c'è quella del libro del Deuteronomio, in cui i dieci comandamenti sono contenuti nel discorso che Mosè fa al popolo ebraico prima di morire. E anche in questa circostanza Mosè ripete al popolo i dieci comandamenti, ma con alcune varianti e ribadendo sempre: "Come Dio ci ha detto". Nella seconda versione si sottolinea il fatto che Mosè non sta leggendo i comandamenti, ma li sta ripetendo, in qualche modo, a memoria, come se volesse rimandare alla versione originale.

E' stato notato che nella prima versione, le lettere che compongono il testo dei dieci comandamenti sono 613, proprio come 613 sono le norme che scaturiscono dal Pentateuco e che Dio ha impartito al popolo ebraico, le norme che riguardano tutti gli aspetti della nostra vita. Come a voler sottolineare che in questo testo sono compresi tutti gli altri comandamenti, tutte le altre norme.
Nella seconda versione, invece, le lettere sono 620, 7 in più. E 7, nella nostra tradizione, sono quelle norme non scritte nel testo biblico, ma che i nostri maestri hanno ricavato, anche se non erano scritte. Faccio un esempio: il lavarsi le mani prima di mangiare, è una disposizione rabbinica, anche se non è scritta nel testo biblico.
Quindi sembra si voglia sottolineare che nella seconda versione è compreso non solo quello che ha detto espressamente Dio, ma anche quello che i maestri hanno intuito, proseguendo nel cammino.
Voi sapete che uno dei modi di interpretare il testo biblico, è quello di conteggiare il valore numerico delle lettere ebraiche; per cui, ad es. la prima lettera, la alef, vale uno, la bet vale due e così via.
Se prendiamo il nome Moshè, ci accorgiamo che la somma del valore numerico delle lettere che compongono questo nome è proprio 613. Colui che ha comunicato a Israele i dieci comandamenti, che contengono, come abbiamo visto, tutti i 613 precetti, ha un nome che vale 613.
Lo stesso vale per Sinài, il monte su cui Dio ha rivelato a Israele i comandamenti e anche per Sivàn, che è il mese in cui i comandamenti sono stati dati a Israele. Vedete, ci sono delle connotazioni che vanno al di là della ragione umana e che ci fanno riflettere molto.
Originariamente, al tempo, cioè, del grande tempio di Salomone, prima nascesse il culto sinagogale e così via, questi comandamenti venivano letti quotidianamente insieme al testo dello Shemà, quel testo in cui si sottolinea l'unicità di Dio e che costituisce la prima e l'ultima parola che noi Ebrei pronunciamo nel corso della nostra esistenza.
Poi si è cessato di leggere i comandamenti per evitare che la gente cominciasse a pensare che erano importanti solo i dieci comandamenti e che tutte le altre norme avessero un ruolo di secondo piano, mentre non è affatto così, ma ogni singolo precetto che Dio ci ha dato è importante.
Non so se avete mai sentito parlare del papiro Nash, dal nome del funzionario che ha comprato questo manoscritto, in Egitto; non c'è nessun dubbio che questo manoscritto risalga a circa 200-150 anni prima dell'Era vogare; prima del ritrovamento dei manoscritti di Qumran era questo il pi antico manoscritto ritrovato di un testo ebraico. In questo papiro Nash si trova proprio lo Shemà e i dieci comandamenti; il che fa pensare che fosse un manoscritto usato per la liturgia del santuario. Sono presenti piccolissime varianti nel testo ebraico, che corrispondono alle varianti presenti nel testo della traduzione dei Settanti.
Ma sono varianti minime, come congiunzioni o simili.
Per quel che riguarda il Sabato, per es. nella prima versione esso è collegato al tema della creazione: "Devi celebrare il sabato, perché in esso Dio ha cessato dalla sua opera di creazione"; nella seconda versione, invece, il sabato è collegato alla liberazione dall'Egitto. Il comando rimane uguale, ma cambia la connessione, diciamo, teologica.
L'Ebreo ha una grandissima libertà nel leggere e interpretare il testo biblico; ognuno di noi ha il diritto e il dovere di studiare il testo biblico anche per conto suo, con l'unica limitazione di farlo con buon senso e onestà intellettuale. Leggo un testo biblico e, se non lo voglio strumentalizzare per fini miei, lo posso leggere come voglio, non ho condizionamenti.
Se leggo: "Non ucciderai" e lo faccio togliendo il non, è ovvio che lo deformo.
Per la lettura del primo capitolo della Genesi si suggerisce, anche in modo abbastanza deciso, che venga letto non da soli, ma almeno con un'altra persona, data la tremenda difficoltà di questo testo, per cui è necessario avere un confronto con qualcuno, in modo che eventuali errori di ragionamento possano essere individuati. La stessa cosa vale per il primo capitolo di Ezechiele, anch'esso estremamente difficile.
Questo discorso vale per una lettura, un approccio al testo biblico per studio; è ovvio che il discorso di questa libertà di interpretazione non vale più, allorché ci si volesse accostare al testo biblico non più per studiarlo, ma per ricavarne delle norme, perché allora ognuno potrebbe farsi il suo codice etico.
Sappiamo che le norme che il testo biblico ci dà sono molto generiche. Per es., se pensiamo al sabato e alla proibizione di lavorare in giorno di sabato, è detto, sì, di non lavorare al sabato, ma cosa si intende per lavoro? E quali sono le azioni proibite di sabato? O quando il testo dice di onorare il padre e la madre, non specifica come onorare.
Quindi quando io mi accosto al testo biblico per ricavare una norma valida per tutti, sono condizionato, non posso farlo di testa mia. I nostri maestri hanno inventato 13 norme, una specie di gabbia, entra la quale dobbiamo muoverci per ricavare la normativa quotidiana pratica riguardante le normative bibliche. Tra l'altro sono delle norme di una logicità strettissima. Ogni passo biblico normativo deve essere collocato nel suo contesto, devo sapere cosa c'è prima e cosa c'è dopo.
Vi faccio un esempio assurdo. Il testo biblico mi dice qual è la punizione per chi ruba una mela, però non mi dice qual è la punizione per chi ne ruba 100 di mele. Due casi analoghi. Ma come si fa? Oppure può essere che il testo mi dà la regola che riguarda la generalità dei casi, ma il caso singolo non viene trattato. Allora, cosa si fa? Vedete? Ci si fa delle domande e si cerca una risposta logica.
Veniamo al nostro testo: "Non ruberai".
Dal punto di vista normativo, noi Ebrei non impariamo da questo comandamento che non si deve rubare. Vuol dire forse che per noi è permesso rubare? No, ma vuole dire, però, che non apprendiamo da questo passo biblico che non si deve rubare, ma da altri passi biblici. E perché? Perché la collocazione è in una posizione tale che se lo interpretassimo come divieto di furto, arriveremmo a constatare una non coerenza nella elencazione dei comandamenti stessi.
Sapete che i comandamenti sono strutturati su due tavole e nella seconda tavola vengono esposti i comandamenti che regolano i rapporti tra uomo e Dio, mentre nella prima i rapporti tra uomo e uomo. Il primo comando della seconda tavola è "Non uccidere" e il secondo "Non commettere adulterio" o meglio tradotto non lasciarti trascinare in divieti che riguardano il mondo della sessualità. Poi segue "Non rubare" e subito dopo "Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo". I nostri maestri sottolineano che non c'è equilibrio, perché per quanto attiene ai primi due comandamenti, come punizione possono portare alla pena di morte. Come è possibile che trasgredire comandi così diversi porti alla stessa punizione? La normativa ebraica dice che i testimoni, nel diritto penale, sono assolutamente fondamentali, per cui, se vedo commettere una cosa che va contro il diritto pensale, ho il dovere di denunciarla, ma se risulta che io ho testimoniato il falso, a me viene comminata la stessa pena, che sarebbe dovuta andare alla persona che io accusavo colpevole. Notate il disequilibrio.
Abbiamo "Non uccidere", che può portare alla pena di morte; "Non commettere adulterio", che può portare alla pena di morte, poi c'è "Non rubare", che invece prevede altri tipi di punizione e finalmente c'è il "Non fare falsa testimonianza", che può anch'esso portare alla pena di morte. Ma cosa ci fa questa azione, che sembra meno grave rispetto alle altre e che però porta alla stessa pena delle altre? Risposta: Si deve trattare di un tipo di furto che può portare alla pena d morte.
Impariamo l'ebraico: il verbo lignòv, rubare, ha tre significati: il primo significato è quello di rubare, appropriarsi di qualcosa che non ci appartiene; il secondo significato è "rapire una persona"; infine il terzo è "rubare la mente", cioè usare dei concetti, delle parole, usando la propria superiorità, per convincere un'altra persona a fare cose che noi vogliamo farle fare. Con la mia parlantina, la mia superiorità io mi approprio della mente di un altro, in qualche modo.
I nostri maestri sottolineano che il "Non rubare" di cui si parla nel decalogo, si riferisce esclusivamente al divieto di rapire degli esseri umani, perché per questo tipo di furto la Torah prevede la pena di morte. Si intende il rapimento di qualcuno per ricavare da quella persona qualcosa a proprio vantaggio. Si esclude da questo concetto i casi di genitori che rapiscono i proprio figli, per affetto, e non per chiedere dei soldi in cambio.
Dal punto di vista strettamente tecnico dovremmo tradurre il testo di questo comandamento non con "Non rubare", ma piuttosto: "Non sottrarre la libertà ai tuoi simili".
Se voi interpellaste una persona normale e le diceste che voi avete il potere di sottrarle tutto, tranne una sola cosa, secondo voi quale cosa chiederebbe? La vita, sicuramente. E dopo la vita, un'altra cosa? Pare che la cosa che sta più a cuore a un essere umano normale è la famiglia, i figli, i genitori. E dopo la famiglia? Secondo qualcuno la libertà. E subito dopo? Altro valore essenziale per l'essere umano normale è il rispetto della gente, il prestigio. E poi vengono i beni materiali. Se guardate bene, sembra l'elenco dei comandamenti, detto diversamente.
"Non uccidere": non attentare alla vita di un altro; "Non commettere adulterio": non attentare alla famiglia di un altro; "Non rapire": non attentare alla libertà di un altro; "Non fare falsa testimonianza": non attentare al prestigio personale di un altro.
Vedete che messi in questa ottica, i comandamenti assumono anche una certa logica.
Se ci fermiamo un attimo sull'ultimo comandamento: "Non desiderare", con tutto il suo corollario, vediamo che parla di tante cose: "la moglie del tuo prossimo, il suo servo, la sua serva, il suo bue, il suo asino e qualunque cosa appartenga al tuo compagno".
Prima fa l'esempio: la moglie. Poi cosa dice, subito dopo? Il servo, la serva, il bue, l'asino e tutto. Non bastava che dicesse: "qualunque cosa appartiene al tuo compagno"? Non c'era bisogno di quelle enunciazioni. Perché proprio la moglie? E se rubo la macchina, mi va bene, visto che non c'è scritto? I nostri maestri dicono che questi sono esempi di cose che ci stanno attorno, cose mobili, immobili, cose che riguardano l'affetto, il prestigio, ecc.
Voglio ancora aggiungere una cosa che prima mi è sfuggita. Non dimenticate la parola iniziale, che apre il decalogo, che è "Io" ed è Dio che sta parlando; mentre l'ultima parola è "il tuo compagno, il tuo prossimo". Dentro queste due parole è collocato tutto quello che il testo biblico vuole da noi; noi dobbiamo organizzare la nostra vita tenendo conto di quel "Io", che è Dio e dall'altra parte del prossimo, del compagno. Chi non sta in equilibrio tra questi due elementi, sbagli. Un tale che si interessi solo a Dio, ma si dimentica delle necessità del proprio prossimo, non è in regola. Oppure, viceversa, un tale che si preoccupi solo delle necessità del proprio prossimo, ma non tenga conto di Dio, non è in regola nemmeno lui. E' interessante questo elemento, l'aver racchiuso tutto entro questi due poli, indispensabili l'uno all'altro.
Al di fuori di questo, stabilito che questo comandamento "Non rubare", riguarda, secondo la nostra visione, il divieto di sottrarre la libertà alle persone, ci sono degli elementi accessori. Ricaviamo, però, il divieto di rubare anche da altri testi biblici; si trova più volte nel libro del Levitico, nello stesso libro dell'Esodo, ecc. Ma i nostri maestri attribuiscono a questo comandamento il divieto di rubare la mente degli altri. E quante volte noi lo facciamo! E questo si colloca, secondo i nostri maestri, nell'interpretazione di un altro passo, che si trova nel libro del Levitico, che, a una prima lettura, ci sembra tanto bello, ma poi, a pensarci bene, non ci piace per niente. Il passo è quello che dice: "Non mettere un inciampo davanti al cieco (Lev 19, 14). Preso alla lettera, vuol dire che non devo far cadere una persona che non vede. Ma come possiamo pensare che Dio in persona mi dica una tale cosa, nel testo biblico? C'è bisogno che lo dica Dio? I nostri maestri dicono che cieco, in questo caso, non vuol dire una persona priva della facoltà di vedere, ma una persona che non ha una percezione chiara delle cose, e inciampo non è mettere una gamba per farlo cadere. E i maestri danno una quantità di esemplificazioni, che discendono da quello che dicevo poc'anzi, cioè rubare, in qualche modo sottrarre, una facoltà di ragionamento a qualcuno che, nei nostri confronti, può avere una speciale stima. Quello che io dico a questa persona, che so che mi stima, è finalizzato ad insegnare qualcosa a questa persona, o sotto sotto, io mi riprometto di averne un vantaggio, in qualche modo? Il Talmud, che sembra banale ed elementare, ma non lo è, fa un esempio. Quante volte capita che qualcuno capita a casa nostra e noi buttiamo lì un invito: "Fermati a cena!"; ma in realtà non è che ci faccia così piacere. Non è che pensiamo di trarre qualche vantaggio da questa persona, magari in un futuro, quando potrei aver bisogno di un favore? Bene, i maestri dicono che se facciamo una cosa del genere, noi contravveniamo al comandamento.
Pensate, poi, che da quella parola sul cieco, noi impariamo anche che è proibito percuotere, dare uno schiaffo al proprio figlio maggiorenne. Se date uno schiaffo a un bambino, voi stessi e il bambino e chiunque sia presente, ha la percezione che il padre sta facendo questa cosa per amore, anche se, in realtà, il bambino dentro di sé pensa di aver subito un'ingiustizia. Ma se percuotete un figlio maggiorenne, potrebbe risultarne che istintivamente il figlio pensi di reagire e pensi di darmi uno schiaffo o me lo dia. Facendo questo lui si sottopone a una norma terribile, che rende un tale figlio passibile di morte. Orbene, il figlio ha fatto una cosa orribile, che lo mette in grande imbarazzo davanti alla legge, ma di chi è la colpa? E' del padre, perché nel momento in cui  ha dato lo schiaffo al figlio, questi era accecato e non vedeva più la realtà. E così è il padre che ha messo un inciampo al cieco.
Analogamente è proibito prestare a un amico, senza testimoni e senza uno scritto, proprio in ottemperanza a quello che ho detto prima. Viene un amico e mi chiede un prestito e io, per amicizia, mi rifiuto di chiamare i testimoni e scrivere una ricevuta. Ma può essere che al tempo stabilito il tale non abbia da restituirmi e, se io vado da lui a chiedergli, lui deve inventare una bugia, per giustificare il fatto che non ha i soldi. E così, se ci fosse stato uno scritto, lui la bugia non l'avrebbe detta.
Ancora è proibito vendere armi offensive. Chi compra le armi, potrebbe ammazzare qualcuno e io sono corresponsabile, perché gliele ho vendute io. Al massimo posso vendere delle armi difensive, tipo uno scudo; ma una lancia non posso venderle.
Insomma, la Bibbia vuole insegnarci a guardare sempre qualche può essere la conseguenza delle nostre azioni.
Un altro esempio. Io sono un grande agente di borsa e viene da me uno che mi chiede un consiglio su delle azioni. Ma può essere che io gli do una risposta che non è sincera al mille per mille; può esserci sempre un retro pensiero.
Tutto questo riguarda il divieto del furto, che non è solo, come abbiamo visto, impossessarsi di qualche cosa che appartiene a un altro.
Quindi vedete quale sguardo ampio ci dona il testo biblico, che va molto oltre la semplice lettere del testo. L'insegnamento va preso globalmente. Un passo del Deuteronomio dice che quando qualcuno ha bisogno di qualcosa, io debbo metterlo in condizione di non soffrire per la mancanza di questa cosa. C'è un povero che non ha da mangiare e si sa che lo si deve aiutare. Ma se è un povero, diventato povero dopo essere stato ricco, per lui  il discorso è diverso; per lui è una sofferenza non avere più la mercedes che aveva prima. E allora io mi devo far carico anche di questo, cioè, se posso, fare in modo che lui abbia di nuovo la sua mercedes. Ovviamente sempre in un discorso di equilibrio, cioè non devo lasciar senza mangiare i miei figli per comprare a questo la mercedes. Ma nel caso in cui io, o la società, siamo in grado di rispondere a queste esigenze, dobbiamo farlo. Certo, se una società fosse organizzata attorno alla normativa biblica, tutto sarebbe diverso.
La punizione che il testo biblico commina per chi ruba qualche cosa è condannarlo a risarcire quello che ha rubato o il corrispettivo economico, più deve restituirmi il 100% di quello che ha rubato; allora se uno ruba una bicicletta, ne deve restituire due. Questo perché la persona che ruba, deve provare in se stesso cosa significa subire il furto di una bicicletta.
Ma il discorso è molto ampio e non si può certo pensare di esaurirlo in una breve conferenza.


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