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Le teofanie in Isaia
(Rav Luciano Meir Caro)


Il problema delle teofanie, ovvero delle manifestazioni di Dio, fuoriesce dal solo ambito del profeta Isaia, perché Dio si è manifestato in tantissime modalità.
Affronterei con voi una lettura molto sommaria del capitolo 6 del libro di Isaia, dove si parla appunto dell'apparizione che il profeta ha avuto e durante la quale egli ha ricevuto l'investitura ufficiale per realizzare il compito che Dio gli aveva destinato.
Isaia fa parte dei profeti cosiddetti "maggiori", nel senso che hanno scritto di più. Questo personaggio si colloca in un periodo storico un po' particolare, perché comincia la sua attività circa 750 anni prima dell'era volgare; il testo specifica che questo inizio avvenne nell'anno della morte del re Uzzià. Come saprete in quel periodo lo Stato ebraico era diviso in due tronconi: il regno di Giuda con capitale Gerusalemme e con un discendente di Davide sul trono e il regno di Israele, al Nord, che non stava seguendo le tradizioni prettamente ebraiche: la capitale era un'altra, i re che si erano succeduti sul trono non erano di stirpe davidica.

E questi due tronconi si venivano a trovare alternativamente in situazioni di indifferenza e relativa tranquillità e in situazioni di contrasto o guerra aperta, per motivi politici e religiosi. Insomma, erano due piccoli stati che facevano parte a pieno titolo della scena storico-politica del tempo, con tutto quello che ne consegue.
Dunque Isaia vive nel periodo che ha visto il crollo del regno di Israele, smembrato e distrutto dalla grande potenza del tempo, che era l'Assiria, che tendeva a globalizzare tutto per fondare un impero straordinariamente grande e potente, che abbracciasse il territorio che va dall'Egitto fino praticamente all'India. Non dimenticate che quando studiamo i personaggi e le storie bibliche, ci troviamo di fronte a piccolissime realtà, che dovevano convivere entro dimensioni geo-politiche molto più grandi.
All'ombra dell'Assiria, dunque, troviamo il nostro piccolissimo regno di Giuda, con capitale Gerusalemme. Il grosso problema che si poneva agli ebrei del tempo, dal punto di vista politico, era quale atteggiamento assumere nei confronti della super-potenza assira, che si faceva sempre più pressante. Ovviamente i punti di vista erano contrastanti. C'era chi riteneva che fosse molto opportuno accettare la dominazione assira, perché sicuramente questo dava più sicurezza e c'era anche chi sosteneva a oltranza la necessità di un'autonomia, che andava conquistata anche a suon di combattimenti feroci. Qualcuno optava per una soluzione intermedia.
Ma dietro a tutto questo c'erano sicuramente delle pressioni egiziane, perché il mondo del Medio Oriente era stretto fra queste due grandi potenze: a est appunto l'Assiria, la Persia, Babilonia e a ovest l'Egitto. Ambedue queste potenze miravano a conglobare tutto sotto il proprio dominio. Ma mentre l'Assiria era nel pieno della sua espansione, l'Egitto cercava di allearsi i piccoli staterelli inducendoli a ribellarsi all'Assiria, sua grande rivale. Insomma, i giochi politici che vediamo anche oggi.
In tutto questo Isaia era del parere che Israele non dovesse accettare supinamente la dominazione assira; spingeva a ribellarsi, affermando un intervento sicuro da parte di Dio, senza però entrare in giochi politici di alleanze. L'unica alleanza da fare era quella col Signore, il Dio di Israele.
Torniamo alla visione. Il testo sacro dice che il profeta la ebbe nell'anno della morte del re Uzzià, ma qui nascono dei problemi. I nostri maestri sono in contrasto fra di loro, perché questo re sarebbe morto circa nel 740 a.E.v., ma secondo l'interpretazione che va per la maggiore non si sarebbe trattato della morte, ma, mettendo in parallelo vari passi biblici, si deduce che questo re sia stato colpito dalla lebbra, o meglio, da una malattia cutanea, che non si riesce a identificare.
Orbene, secondo la visione ebraica delle cose, il lebbroso è considerato come morto, perché veniva estromesso dalla società e questo equivaleva alla morte.
E siccome la visione biblica interpreta la malattia come punizione divina, ciò significa che se re Uzzià si è ammalato, vuol dire che se l'era meritato, a causa di gravi errori commessi. Incrociando ancora vari passi biblici, si arriva a dire che il grande errore di Uzzià sia stato quello di volere offrire dell'incenso nel santuario, mentre a lui era vietato, perché non apparteneva alla casta sacerdotale.


Isaia si scaglia contro l'idolatria, contro le alleanza politiche, le ingiustizie e contro gli atti di culto puramente formali. E' giusto fare i sacrifici, frequentare il santuario, ecc., ma se queste cose non sono sostenute da una condotta eticamente retta, non possono essere accette a Dio.
Un altro grosso problema di carattere critico rispetto al libro di Isaia è quello che riguarda la stesura del libro stesso, che è composto da 66 capitoli, ma anche in campo ebraico si sostiene che l'autore non sia uno solo. I primi 40 capitoli sono attribuiti a Isaia, ma gli altri no, perché cambia lo stile e perciò vengono attribuiti a un autore chiamato "Deutero-Isaia". Addirittura poi c'è chi parla di un "Trito-Isaia" che avrebbe composto una parte delle seconda parte del libro. Ma non ci addentriamo in questi problemi di critica letteraria, perché quello che conta è che è tutta Parola di Dio.
Un aspetto importante è che il profeta sottolinea più volte il concetto della santità di Dio, la kedushà. Dico santità, ma non so cosa vuol dire. Il testo biblico dice che Dio ha santificato il settimo giorno; ma cosa vuol dire, cosa gli ha fatto, Dio, per santificarlo? E ancora, il libro del Levitico invita: "Siate santi, perché Io sono santo". A me va bene che l'Eterno definisca se stesso "santo" - kadosh -, ma cosa vuol dire?  E cosa vuol dire che ci chiede di essere santi e assimilarci a Lui, che è santo?
Qualcuno sostiene che dal punto di vista etimologico kadosh non significa niente, salvo un'elucubrazione mentale, secondo cui, kadosh evoca due parole ebraiche - yekòd esh, che significa "fiamma di fuoco". Che Dio è kadosh, vuol dire che è inavvicinabile, perché brucia. Non so se è veramente così.
Qualcun altro ha accostato il termine kadosh andando a vedere quante volte ritorna nel testo biblico e si è vista che tante volte la kedushà è collegata con disposizioni bibliche che riguardano dei divieti inerenti alla vita alimentare e alla vita sessuale. Essere santi, allora, vuol dire disciplinare la nostra vita alimentare e la nostra vita sessuale. E' un'ipotesi anche questa.
Ma Dio non ha bisogno di niente per mantenere se stesso e per tramandare se stesso; non ha vita alimentare o sessuale.
Qualcuno dice che kadosh vuol dire "separato". Dio è separato da tutto, non è assimilato a nulla.
E cosa vuol dire che il popolo ebraico è un popolo santo? Che siamo separati, cioè distinti dagli altri popoli? Distinti, ma non perché siamo peggio o meglio degli altri.
Io direi che la cosa migliore davanti a temi come questi, è la modestia, cioè il riconoscere che non sappiamo di cosa si tratti veramente.
Il libro di Isaia comincia con delle profezie di vario genere e poi, forse anche per un artificio letterario, quello che doveva essere il primo capitolo con l'investitura profetica, viene posticipato al capitolo 6. Se ricordate, il libro di Geremia comincia subito con la sua investitura. E anche nella storia di Mosè succede un po' così: cioè, a un certo punto Dio gli appare e lo invia, investendolo di una missione particolare. Vorrei che voi notaste questo filo conduttore comune: Dio si presenta, si manifesta, ma lo fa con modalità diverse e nei momenti più diversi.
Nel caso del nostro Isaia cosa succede? Allora, siamo nell'anno della morte del re Uzzià e il rpfeta descrive così la scena:
"Ho visto il Signore e i lembi del suo abito ricoprivano il santuario" (Is 6, 1). Non entro nel dettaglio, perché non so se il traduttore abbia inteso bene; il testo ebraico parla di "palazzo" - echàl; si intende il santuario di Gerusalemme o era una casa importante di Gerusalemme o ancora il mondo, le strutture cosmiche?
Domandiamoci questo: quando il testo biblico ci dà dei particolari, che a noi non dicono molto, probabilmente vuole indirizzarci verso una certa interpretazione. Ma la domanda che faccio io è questa: a noi che ci importa che questa visione sia avvenuta nell'anno della morte del re Uzzià? E se fosse avvenuta dieci anni prima, cosa cambia? Se il testo dice questo particolare, un significato ci sarà.
Se notiamo, tante volte il testo biblico sorvola sui particolari fisici dei personaggi; per es. di Abramo non dice niente; e invece, guarda caso, di Esaù ci dice addirittura che aveva i capelli rossi e di Giacobbe dice che aveva la pelle liscia. O ancora specifica dei particolari fisici estetici delle sue mogli di Giacobbe. Cosa vuol dire che una aveva gli occhi teneri e l'altra era bella? E occhi teneri è negativo o positivo? E a me cosa me ne importa se Lea aveva gli occhi teneri? I maestri dicono che gli occhi teneri erano segno che lei piangeva spesso, perché sentiva che la sua vita era segnata dal dolore.
Un altro esempio: quando Abramo accoglie i tre viandanti, il testo dice che era l'ora più calda del giorno. Ma a me cosa cambia, che fosse mezzogiorno o no?
Lo stesso vale per il racconto di Isaia. La visione è avvenuta nell'anno della morte di Uzzià, ma se leggiamo il seguito del testo con attenzione, potremmo arrivare a dire che questa cosa era collegata con un terremoto.
Ma andiamo avanti. Isaia dice: "Ho visto l'Eterno". Ma descrive tutto fuorché Lui. Dice che era seduto su un trono e i lembi del suo mantello riempivano il palazzo. Allora era vestito? Poi dice che al di sopra stavano i serafini, ciascuno dei quali aveva sei ali e dicevano: "Santo santo santo…". Cosa sono i serafini? Non lo so. Solo qui, in tutto il testo biblico, troviamo la parola serafìm, che sta a indicare degli esseri speciali, direi soprannaturali, dotati di ali. Ma nelle altre occorrenze bibliche questa parola indica una cosa completamente diversa. Ad es. saràf è un tipo di serpente.
Il testo dice che i serafini stavano al di sopra di lui; ma di lui chi? Dio? O il trono?
E avevano sei ali: con due si coprivano la faccia, con due le gambe e con due volavano. Qualcuno dice che si coprivano la faccia, perché Dio non si può guardare.
E nel parlare, nel loro ripetere tre volte la parola kadosh, sembra che stiano descrivendo Dio: Dio è kadosh. Traduco "santo", ma non so cosa vuol dire.
Il testo prosegue: "E le fondamenta della soglia si scossero al suono della voce". Ecco da dove salta fuori la storia del terremoto.
"…e la casa si riempiva di fumo". Insomma Isaia dice che ha visto Dio, ma poi descrive tutto, fuorché Dio. Dopo questo dice: "Ahimè, sono perduto, perché… i miei occhi hanno visto il re l'Eterno e Signore Zevaoth". Una piccola digressione su questa parola. Zevaoth è una delle parole con la quale viene indicato Dio; dal punto di visto semantico significa "esercito", "schiere" e allora "Dio delle schiere" vuol dire il Dio arbitro delle guerre. Oppure può riferirsi alle schiere celesti, alle galassie.
Isaia esclama "Guai a me", perché vedere Dio è impossibile per l'uomo, per la troppa distanza che c'è tra l'uomo e Dio: da una parte la purità assoluta e dall'altra parte la contaminazione dell'uomo. Infatti Isaia dice che è impuro di labbra. E cosa vuol dire? Che l'uomo fa degli errori con la sua facoltà di parlare.
Dopo questa esclamazione il testo descrive un'altra scena: un serafino prende con le molle un carbone e dice: "Avendo toccato la tua bocca, la tua colpa è tolta e il tuo peccato espiato".
Un particolare: notate che il serafino vola e non tocca la terra.
A questo punto Isaia ode la voce di Dio che chiede: "Chi manderò e chi andrà per noi?". Dio non parla direttamente al profeta, che invece risponde: "Eccomi, manda me" (v. 8).
Dio sembra invitare Isaia ad andare a parlare al popolo, ma aggiunge che non servirà a niente, perché sono duri: non vedono, non sentono, non capiscono. Però un'altra traduzione suonerebbe così: "Ascoltate, ma non intenderete"; e cioè il non intendere non è attribuito alla durezza dell'uomo, ma a un intervento di Dio, che rende impossibile all'uomo di capire.
Maimonide dice che qui si vuol sottolineare che il popolo ebraico ha la mente ottusa, oppure si vuol dire, dietro le righe, che Dio li punisce così, cioè sottraendo loro la facoltà di adoperare correttamente gli organi fisici. Noi uomini siamo dotati di libero arbitrio e perciò siamo liberi di scegliere la strada che vogliamo intraprendere, ma Maimonide dice che quando l'uomo si macchia di peccati troppo gravi e sorpassa una certa soglia di peccato, Dio come punizione gli sottrae la possibilità di usare correttamente le proprie facoltà, cioè gli sottrae il libero arbitrio. Questo succede rarissimamente, dice Maimonide. Ricordate la storia di Faraone, nel libro dell'Esodo? A un certo punto il testo dice che è Dio ad indurire il cuore di Faraone; qui sta l'intervento punitivo di Dio.
Dio ci ha creati in modo tale che se ci pentiamo, Lui ci perdona, ma se oltrepassiamo una certa linea rossa di peccato, quando lo facciamo per nostra volontà, Dio ci sottrae la possibilità di pentirci, perché se non facesse così sarebbe un insulto pesante al concetto di giustizia.
Insomma: io sono libero di scegliere la strada che voglio, la intraprendo, ma arrivato a un certo punto, anche se non mi piace più, devo continuare, perché se mi pentissi, sarebbe troppo comodo.
Sono cose eclatanti. Pensate a un feroce assassino, non voglio fare dei nomi (un Hitler). Un tale che ha causato migliaia di morti, con atroci sofferenze e questo, un giorno prima di morire, dice che si pente e Dio lo perdona. Insomma, non sarebbe una cosa tollerabile col concetto di giustizio. Dio ti perdona, ma fino a una certo punto.
Così, se scegli la strada del bene, arrivato a un certo punto, puoi solo andar meglio; ma se scegli la strada del male, arrivato a un certo livello, non puoi più tornare indietro, perché sei tu stesso che ti sei creato questa situazione.
Così Maimonide dice che Dio trova questo popolo talmente peccatore, che Lui deve foderargli le orecchie, in modo che acusticamente sentono, ma non capiscono.
Ripeto, sto dicendo delle cose molto pesante, anche perché chi è che decide qual è la linea rossa da cui non si può tornare più indietro?
Per tornare al testo: a queste parole di Dio, Isaia chiede: "Fino a quando, Signore?…" (v. 11). E viene annunciata una possibilità di riscatto: "…di cui alla caduta resta il ceppo: un rampollo duraturo sarà una progenie santa".
Qui c'è il concetto sostenuto da molti profeti che ci dà una visione dell'esilio del popolo ebraico. Molti si domandano se l'esilio del popolo ebraico, cioè la dispersione in mezzo alle genti, sia una cosa positiva o negativa, sia per gli Ebrei che per le genti. Qualcuno lo ritiene positivo sia per gli uni che per gli altri, perché così Israele trasmette ai popoli dei messaggi di origine divina e recepisce a sua volta degli elementi positivi. E' un'osmosi positiva.
Qualcuno sostiene il contrario, cioè che è negativo per tutti: per gli Ebrei che sono oggetto di discriminazione, umiliazione, servaggio e perdono la loro identità e per i popoli, che tirano fuori il peggio di sé nei confronti degli Ebrei. Come se l'antisemitismo fosse una specie di termometro, per misurare la negatività, i lati peggiori dei popoli.
Gli Ebrei stanno bene e fanno stare bene gli altri, quando sono nella loro terra.
I profeti sostengono che l'esilio è la "fonderia del metallo" per gli Ebrei. Ma, in generale, la visione biblica riguardo all'esilio, espressa attraverso la voce dei profeti, è molto negativa; per un popolo, qualsiasi esso sia, l'esilio è la cosa peggiore che possa capitare. Di questo dobbiamo tener conto tutte le volte che si parla di extracomunitari.
C'è un versetto del Cantico dei Cantici in cui viene posta sulla bocca dello sposo questa sposa: "Chi è questa che sale dal deserto?". Immaginiamo che stia arrivando la carovana che accompagna la fidanzata. Una delle interpretazioni suggerite è che queste parole non siano dello sposo, ma della umanità che fa riferimento all'arrivo nel mondo della civiltà ebraica, assimilata a una sposa. E sale dal deserto significa che tutto quello che gli Ebrei hanno dato di buono al mondo, lo hanno dato dal deserto, da quando erano nel deserto, durante i primi 40 anni di cammino verso la terra promessa. E cosa hanno dato dal deserto? La Torah, che è l'insegnamento di Dio, Mosè, la profezia. Dopo il cammino nel deserto, gli Ebrei come popolo non hanno più avuto nulla da offrire; ma come individui, come singoli sì, perché è pur vero che ci sono moltissime persone del nostro popolo che hanno dato un contributo bellissimo all'umanità. Io non vi do delle soluzioni, ma dei problemi, per invitarvi a ragionare da voi.
Vorrei completare il discorso su Isaia. Lui ha visto questo spettacolo divino: il trono, la veste di Dio, i serafini, il tizzone ardente e ha sentito la voce di Dio. Direi che Isaia è uno dei pochi profeti che ha accettato la chiamata divina, l'investitura con grande timore, ma su base volontaria. Ricordate Mosè, che insisteva di essere balbuziente e incapace e così anche Geremia, che si schermiva dicendo: "Sono giovane"? O anche Giona, che non ha detto una parola, ma è scappato. Isaia, invece, si presenta volontario.
Non sappiamo come sia morto, ma la tradizione ebraica vuole che Isaia abbia operato per almeno 45 anni, durante i quali ha visto la distruzione del regno di Israele, come anche la venuta del re Ezechia, che forse lui ha intravisto come prodromo della venuta del Messia, e dopo di lui il figlio Menashé, un uomo inetto. E appunto la tradizione dice che proprio questo re avrebbe messo a morte Isaia, perché gli dava fastidio. Come atto di scherno il re avrebbe fatto mettere il profeta dentro un albero e poi l'avrebbe fatto segare, per vedere cosa sarebbe rimasto di lui.
Vi invito a leggere con molta attenzione e modestia questi testi, sempre tenendo presente che sono molto più le cose che non capiamo di quelle che capiamo.


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