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Judisches Museum Berlino

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Visita a   JUDISCHES MUSEUM  Berlino


Il Jüdisches Museum di Berlino


Le ultime generazioni dei Berlinesi hanno dei grossi problemi circa l’atteggiamento da assumere  nei confronti del proprio passato. Vivono in una straordinaria città, ricca di testimonianze di grandezza e di gloria, di lussuose dimore di Kaiser, di raccolte d’arte di rara bellezza volute da Grandi Elettori, di porte di Brandeburgo adorne di quadrighe di bronzo, di colonne sormontate da statue d’oro della vittoria e così via. Ma la storia recente non giustifica più  tanta esaltazione, tanta presopopea. La Germania ha perso tutte le guerre che essa stessa ha provocato nel XX secolo, ha dovuto subire rigorosi Diktat, debiti di guerra, devastanti crisi economiche, occupazioni del territorio, divisioni dello Stato, vergognosi "muri", dure condanne morali. Per non soccombere a tanto obbrobbrio i giovani berlinesi hanno sviluppato una leggera autoironia che si manifesta soprattutto nei nomignoli affibbiati a certi monumenti del passato: per esempio la statua alata che ricorda la loro ultima guerra vittoriosa (contro la Francia nel 1870) è detta familiarmente "Else"; la tragica torre, resto della  gotica Gedächtniskirche, rudere annerito dall’incendio provocato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, lasciato tal quale a severo monito, è detta "dente cariato". Il famoso "muro della vergogna" è venduto a briciole inserite nelle cartoline.
 C’è però una cosa su cui i Berlinesi non sono disposti a scherzare: il genocidio degli Ebrei. Per ricordare questa parte tanto significativa della sua popolazione che ha subito una così terribile sorte da parte dei nazisti, la città di Berlino ha voluto il Jüdisches Museum,  grande metafora della storia e della cultura ebraica.
 Ho avuto occasione di visitare questo Museo qualche anno fa e ne ho ricavato l’impressione che la città di Berlino, con questo monumento, voglia mettersi a confronto col proprio passato senza alcuna mediazione, e al tempo stesso sia determinata ad aprire una prospettiva radicalmente diversa sul futuro proprio e di tutta la Germania.
 Nello spazio rimasto vuoto dopo la distruzione del muro che attraversava tutta la città, lambendo il fiume Sprea, è nata la nuova Berlino: gli architetti più all’avanguardia del mondo si sono dati appuntamento per arricchire la città di sensazionali strutture creative, di edilizia sofisticata, di creazioni dal carattere cosmopolita. In questo contesto si inserisce il Jüdisches Museum, dovuto al genio di Daniel Libeskind, architetto americano di origine ebraica, e di molti suoi collaboratori.
 Non è un comune Museo. Inaugurato nel settembre del 2001, non è ancora completato nelle sue raccolte di materiali, di collezioni, di documenti di ogni tipo, e forse non lo sarà mai in quanto la costruzione è fatta apposta per essere continuamente arricchita nei suoi spazi espositivi, interattivi e multimediali, per essere sede di mostre periodiche, luogo di ricerca, di ritrovo, di scambi di idee. Dunque il Museo è un nucleo vitale della cultura ebraico-tedesca e la testimonianza fisica delle profonde interrelazioni che legano gli ebrei alla città.
 La prima cosa che si nota è l’originalissimo  rapporto fra  architettura dell’edificio e contenuto espositivo. L’edificio, tutto rivestito di metallo, con finestre che sembrano squarci, assume una connotazione sinistra da macchina bellica ad alta tecnologia; esso è strutturato attorno a due linee che rappresentano il difficile percorso della storia ebraico-tedesca: una di queste linee è dritta, ma frammentata in vari segmenti, l’altra è tortuosa, spigolosa, sospesa senza un termine. Questa particolarità si può apprezzare soprattutto osservando la pianta dell’edificio, che può essere interpretata come una stella di Davide aperta, distorta, decostruita e già comincia a rendere tangibile la storia e  invita a riflettere.
  Nei punti dove le due  linee si intersecano, si aprono dei vuoti, che occupano verticalmente l’altezza intera del Museo; sono vuoti inquietanti ed enigmatici, e da alcuni sono stati interpretati come simbolo di una drammatica assenza; assenza della ragione o forse assenza di Dio. Essi hanno la funzione di far visualizzare, e direi quasi rivivere, quella che è stata la catastrofe non solo degli ebrei, ma anche dei tedeschi. Ad esempio, il Memory Void (vuoto della memoria),  è arricchito da una sorta di opera d’arte, consistente in migliaia di facce tagliate da una lamina d’acciaio che giacciono ammucchiate come foglie d’autunno cadute a terra. Irresistibile emerge il ricordo delle parole di Giorgio Bassani: «Soffiati via, tutti: come foglie leggere, come pezzi di carta, come capelli di una chioma incanutita dagli anni e dal terrore... ». Ma c’è in quest’opera anche un messaggio di speranza: il possibile ritorno di una nuova vita dopo l’inverno.
 Un altro spazio altamente evocatorio e angosciante è la torre dell’Olocausto: qui  i visitatori vengono fatti entrare a piccoli gruppi e rinchiusi per qualche minuto fra nude, fredde pareti di cemento che si ergono opprimenti fino ad un’altezza che sembra non aver fine, con effetto di desolazione e orrore irrimediabile. Solo una fessura di luce debolissima che si staglia in alto appare come un labile miraggio di salvezza.
 Ma il ricordo della Shoah non costituisce il punto focale del Museo. Anzi, è la cultura ebraica tedesca, dal Medioevo ad oggi, che vi è soprattutto celebrata per i grandi contributi dati a tutti i campi del sapere e della vita sociale. Gli ebrei infatti non sono presentati solo come vittime, ma più spesso come cittadini che svolsero un ruolo importantissimo nella storia di Berlino attraverso i secoli. «Berlino, scrive Daniel Libeskind, non è soltanto un luogo fisico, ma anche un’entità della mente, una realtà spirituale che si rende immediatamente comprensibile a tutti nel mondo».
 Gli spazi espositivi del Museo, così fortemente irregolari e destabilizzanti, impediscono ogni approccio  convenzionale; le tecnologie più avanzate e digitalizzate, tendono a mettere in luce i riferimenti incrociati che attraversano la cultura berlinese, e in particolare la sua componente ebraica. Sterminata è la documentazione che  testimonia la vita  e  la storia degli Ebrei dai tempi di Carlo Magno alla prima seria persecuzione che si ebbe nelle città renane ad opera dei crociati; dalla sopravvivenza continuamente minacciata, soprattutto al tempo della peste nera del 1348, di cui gli ebrei furono accusati, all’uscita dall’isolamento nel XVIII secolo, al miglioramento economico, all’intensa vita sociale che si verificò ai tempi del Kaiser, all’assorbimento della cultura circostante. Proiettate sulla parete spiccano, fra le tante, le parole del rabbino riformatore Abraham Geiger: «Non dobbiamo pensare che l’ebraismo dipenda dalla credenza che un giorno i suoi aderenti formeranno di nuovo una unità politica: sinceramente noi apparteniamo al paese in cui viviamo, questa è la nostra patria», scritte quando già era nato il movimento sionista. Ma questo straordinario inserimento degli Ebrei nella vita e nella storia del popolo tedesco conobbe una brusca battuta d’arresto col ritorno dell’antisemitismo e con la salita al potere del nazional-socialismo.
 Oggi, dopo gli orrori della Shoah, e nonostante la nascita dello Stato d’Israele, la comunità ebraica tedesca ha conosciuto il maggiore sviluppo dal dopoguerra, passando da 15 000 a 100 000 persone, in quanto la tensione fra culture diverse sta cominciando da parte di molti a essere percepita come un arricchimento. Questo Museo lo dimostra inequivocabilmente.
 Tutta questa storia è presentatata mediante l’esposizione in vetrinette di documenti di ogni tipo, lettere, foto, oggetti di vita quotidiana, ma soprattutto con mezzi altamente tecnologici, e, cosa mai vista prima, per mezzo di vere e proprie attività adatte anche ai bambini. L’angolarità tipica dell’edificio offre loro passaggi misteriosi da esplorare, dove banchi delle antiche scuole ebraiche invitano a  sedersi per ascoltare le voci registrate di alunni ebraici; vecchi libri illustrati, adottati in quelle scuole, si possono sfogliare liberamente. I più grandicelli possono provare a trascinarsi uno zaino  sulla schiena, per immaginare qual era la vita del venditore itinerante ebreo, possono scrivere il loro nome in ebraico o lasciare una testimonianza della loro visita al Museo scrivendo un biglietto da appoggiare sull’albero del melograno. Gli adulti possono leggere brani del Talmud  su schermi di computer con spiegazione storica, assistere a proiezioni, sulle ampie pareti bianche dell’edificio, di pellicole che vanno dai tempi del muto ai più recenti documentari  televisivi, filmati che mostrano la vita nelle case degli ebrei dall’inizio del secolo scorso. Questi filmati esercitano un particolare fascino ma suscitano anche un senso di angoscia per la consapevolezza che quelle persone che vediamo celebrare le loro feste religiose, che sono riunite attorno a una tavola apparecchiata, che festeggiano un matrimonio, che leggono o lavorano o sorvegliano i giochi dei bambini, sono quasi tutte perite tragicamente. Al tempo stesso aumentano l’effetto di estraneità le voci che sembrano provenire dal passato,  voci di gente comune, musiche di compositori ebraici, parole di reporters.
 Si tratta dunque di un Museo per tutti, piccoli e grandi, tedeschi e non tedeschi, ebrei e non ebrei. È un luogo di visite, ma anche e soprattutto di  ricerca e di dibattito, per il suo programma di manifestazioni, concerti, conferenze e attività didattiche; è un luogo che stimola domande, propone interrogativi, permette di comunicare pensieri.
 È un luogo da cui si esce pensosi, consapevoli che le lacerazioni della storia  del Novecento non sono ancora del tutto sanate e che esistono molte più domande che risposte; ma si comprende anche che l’incontro fra gli universalismi tedesco ed ebraico, nonostante le contraddizioni,  prosegue il suo arduo cammino.

        Giovanna Fuschini






 
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