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Levi Temin

Scomparsa di Alberta Levi,  fondatrice dell’Amicizia Ebraico Cristiana di Napoli

A nome degli iscritti e simpatizzanti dell’associazione Amicizia Ebraico-Cristiana della Romagna, rivolgo al Signore un grato ricordo e una preghiera speciale per Alberta, conosciuta tanti anni fa ai Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli. La sua vita impegnata a far conoscere agli amici le sue vicende personali e agli studenti delle scuole da lei visitate una storia di donna ebrea in dialogo con tutti, è per noi un grande esempio di giustizia. La penso accanto al Signore con tutti i giusti che come lei hanno dato testimonianza di come si deve vivere in fedeltà e rettitudine.
Spiritualmente sarà sempre con noi e ci accompagnerà nel nostro lavoro di amicizia ebraico-cristiana. Il suo ricordo sia in benedizione.


Maria Angela Baroncelli Molducci

Cara Diana, caro Presidente, cari amici dell'AEC di Napoli,

ricorderò sempre il mio primo incontro con Alberta Levi, più di dieci anni fa, a Camaldoli, quando sedetti per caso vicino a lei a tavola e la ascoltai raccontare la vicenda per cui sfuggì alla terribile retata del 16 ottobre 1943, a Roma. Ne ho scritto in un articolo, pubblicato poi su Ha Keillah,  dal titolo "Voci della Ferrara ebraica" (di cui allego un brano qui sotto). Nell'articolo parlavo anzitutto del libro del ferrarese Cesare Moisè Finzi "Qualcuno si è salvato, ma niente è stato più come prima", ma anche di Corrado Israel De Benedetti che ha affidato al volume "I sogni non passano in eredità" i suoi ricordi  di perseguitato a Ferrara poi la fuga in Israele, e infine di Alberta, sulla cui esperienza possiedo il libretto "Storia di Alberta" frutto dei suoi racconti ad alunni delle scuole medie. Tutti questi personaggi, divenuti poi narratori di memorie, si incontrano nel libro di Cesare Finzi, e gravitano attorno alla figura del giovane professore ebreo, allora insegnante alla scuola ebraica di via Vignatagliata, il grande scrittore Giorgio Bassani, l'autore del "Giardino dei Finzi-Contini".
Io sono nata a Ferrara e, benché dopo la guerra mi sia trasferita nella vicina Ravenna, ho sempre considerato la mia città natale come "luogo dell'anima", e il ghetto di Ferrara, di cui avevo sentito tanto parlare da mio nonno, mi ha sempre affascinato.

Dall'articolo "Voci della Ferrara Ebraica" uscito sulla rivista Hakeillah di giugno-luglio 2006:
«Pagina 43: anno scolastico 1937/’38, in terza elementare… «La nostra maestra, scrive Cesare Finzi , ora è la signorina Albertina, una giovane alta, bionda e bellissima che mi prende subito in simpatia. Io la ricambio di un amore totale e me ne innamoro perdutamente». La nota in calce riporta, fra l’altro, questa notizia: «La mia adorata maestra si è salvata a Roma sfuggendo fortunosamente alla retata del 16 ottobre 1943». In questa descrizione ho subito riconosciuto la signora Alberta Levi Temin, che avevo incontrato  alcuni anni fa al Colloquio di Camaldoli. Per caso a pranzo ero capitata vicino a lei, ora più che ottantenne, ma ancora dolce e aggraziata. Stava narrando con grande semplicità dei fatti tremendi: nell’autunno del 1943 suo padre, preoccupato per le voci che si sentivano circolare, di giovani donne ebree brutalizzate da ufficiali tedeschi, aveva deciso di allontanarsi da Ferrara con la moglie e le due figlie e di cercare ospitalità a Roma, presso certi parenti che abitavano nel ghetto. A Roma si pensava di star sicuri perché la presenza della Santa Sede avrebbe dissuaso i nazisti dalle peggiori persecuzioni antiebraiche. Ma pochi giorni dopo il loro arrivo in casa degli zii (il 16 ottobre!), sul far dell’alba, le SS irruppero nel ghetto, si introdussero a calci nelle abitazioni degli ebrei, e ingiunsero brutalmente a tutti di scendere in strada con poco bagaglio. Alberta, sgusciata sul balcone in camicia da notte senza essere vista, sentiva in casa le voci aspre e concitate dei soldati tedeschi, il gran fracasso dell’abitazione che veniva messa soqquadro, e intanto, rabbrividendo dal freddo, guardava giù nella strada e nelle case vicine le persone svolgere le incombenze giornaliere, aprire le finestre, scendere in strada, entrare dal tabaccaio, ignare del dramma che si stava consumando nelle case degli ebrei. Così sfuggì alla cattura.»

La mia vicinanza e il mio abbraccio agli amici e ai  familiari di Alberta, con affetto e profondo rimpianto.
         Giovanna Fuschini
       Amicizia Ebraico-Cristiana della Romagna

Roma, 5 giugno 1944

di Alberta Levi Temin

Desiderate sapere le mie emozioni provate il 5 giugno 1944 a Roma? Peccato non averle scritte quella sera stessa, nella camera da letto delle maestre della Pro Infanzia Romana,  Lungotevere Sanzio n. 11. Condividevo la camera con la mia carissima cugina Luciana Bassi, oggi ricordata come Luciana Sullam,  cognome assunto  nell’autunno del 1945, dopo il matrimonio con Renzo. Eravamo le  insegnanti: due in un' unica aula che accoglieva cinque classi elementari. Non ricordo esattamente quanti erano gli alunni, certamente più di 40, forse 50. Fra gli alunni della V elementare c'era mio cugino Roby Bassi, fratello di Luciana. Aveva 12 anni, aveva già frequentato a Venezia  la II ginnasio, ma per poter essere accolto nell'istituto fu iscritto alla V elementare.  Naturalmente eravamo tutti e tre con carte di identità false, ma la  direttrice sapeva la situazione, anche se non aveva voluto conoscere i nostri veri nomi, nel timore di poterli rivelare sotto tortura.  Nell'Istituto c'erano altre persone nascoste, ebree e non, perciò le insegnanti dovevano essere persone che sicuramente non avrebbero fatto la spia; poi, data l'anomala situazione, non  era neppure necessario dare loro uno stipendio.       
Sono trascorsi 66 anni, io allora ne avevo 24. La mia mente oggi è ancora lucida e le molte emozioni provate all'arrivo degli Alleati a Roma,  non si sono cancellate.  Quel 4 giugno alle ore 11,30, come ogni mattina, sospendevamo le lezioni e accompagnavamo i ragazzi nel cortile per l'ora all'aria aperta, per giocare in libertà. Si udivano in lontananza rumori di aerei, ma i palazzi che circondavano il nostro cortile non ci permettevano un ampio spazio di veduta. Ad un tratto  da una finestra del  II piano  si affacciò la direttrice  che, a gran voce, ci intimava di rientrare immediatamente in casa. Facemmo appena in tempo: passò un aeroplano bassissimo e due spezzoni di mitraglia caddero nel cortile...     La "Mammina", così si faceva chiamare la direttrice, aveva osservato sul Lungotevere Sanzio una fila di carri armati tedeschi  che lentamente si dirigevano verso il Nord. Ad un tratto, al rumore lontano degli aerei che volavano a bassa quota, i soldati  fermarono i loro mezzi, scesero e con destrezza vi si nascosero sotto.  La Mammina comprese da quella manovra il pericolo incombente e ci salvò.       
La giornata fu lunga, interminabile. Capivamo che forse la libertà era in arrivo, ma non osavamo neppure  sperare.  Non poter avere notizie dei nostri cari era insopportabile. Luciana ed io pensammo che forse la cosa più saggia era far cantare i ragazzi , per non ascoltare i rumori che venivano dalla strada, per cercare di distrarci.
Fu solo a notte inoltrata che le truppe alleate giunsero sotto le nostre finestre.  Sentimmo Luciana ed io dapprima un brusio insolito, poi  qualcuno che, quasi timidamente, batteva le mani.  Ma l’istituto era silenzioso, Mammina chiusa nel suo appartamento, i bambini dormivano nelle loro camerate.  Con molta cautela aprimmo la finestra, cosa proibita durante le ore notturne perché vigeva il coprifuoco: di fronte avevamo la porta d’ingresso della scuola elementare ebraica, sormontata dalla scritta in ebraico e in italiano:" Solo il giusto entrerà". Quante volte l’abbiamo letta, con una indicibile commozione interna. Ma quella notte non ci soffermammo, spingemmo lo sguardo a sinistra sul Lungotevere e, pure nel buio,  comprendemmo che quei carri armati che avanzavano erano diversi da quelli che conoscevamo, questi ci portavano la libertà.  Il sonno se n’era andato, avremmo voluto condividere le nostre emozioni , prima di tutti con Roby, ma la casa dormiva e non osammo aprire la porta della nostra stanza. Il mio primo pensiero fu per la mia Mamma. Era mancata esattamente due mesi prima, di malattia, in una camera singola piena di sole dell’Ospedale dell’Addolorata, con attorno il marito, le tre figlie, la sorella Lina; curata come meglio non si poteva, in un letto con le lenzuola pulite….
Il 16 di ottobre era stata arrestata in Via Flaminia 21 e la sorella  Alba la salvò spingendola nel gruppo dei cattolici di matrimonio misto, a Roma nessuno la conosceva. Ben altra fine le sarebbe stata riservata; questo pensiero mi sostenne quel giorno, ma la notte fra il 4 e il 5 giugno potei dare sfogo alle mie lacrime represse: Mamma non era con me per assaporare insieme la libertà riconquistata.  La vita per me sarebbe ricominciata, via le carte false, via le menzogne sostenute per tanto, troppo tempo, via la PAURA con tutte le lettere maiuscole.  Con dignità avrei finalmente  detto a tutti che il mio nome era Alberta Levi  ed ero ebrea.

In: "1939-1943 Dalla vita quotidiana alla Storia", pubblicazione realizzata con il contributo dell’Assessorato alle Politiche della Scuola della Provincia di Roma, a cura di L. Di Ruscio, R. Gravina, .Modigliani, S. Terracina, Roma, 2010, pp. 43-44  

 
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