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Attività

Leggere il Vangelo di Matteo come testo giudaico del Secondo Tempio
(Prof. Gabriele Boccaccini)
(il testo non è stato rivisto dall'autore)


Secondo giorno Terza lezione

Ecco, come al solito questo pomeriggio avremo una introduzione più breve, un momento di intervallo e poi lo spazio alle domande, agli interventi. Immagino, spero anche, che ne abbiate riparlato durante queste giornate e quindi siete pronti a domandare, a porgere diverse domande.
Volevo concludere, oggi pomeriggio sempre, diciamo, con quel tipo di metodologia che abbiamo affrontato anche ieri, cioè cercare di vedere nel Vangelo una risposta, una voce all'interno di una pluralità di voci nel mondo giudaico, e al tempo stesso vedere nel Vangelo di Matteo una posizione anche particolare all'interno del dibattito cristiano che riproduce in larga misura quello che è il dibattito nella comunità ebraica nel suo insieme.
Quindi mi rifaccio, riprendo un pochino da quello che è l'ambito giudaico del tempo. Ovviamente erano presenti nella religione ebraica del tempo posizioni diverse rispetto ai gentili. Nessuna religione ha il monopolio esclusivo dell'intolleranza. Ci sono posizioni di intolleranza in tutte le religioni, ci sono posizioni di grande apertura, tolleranza e sacrificio in  tutte le religioni. Però il dibattito nel mondo giudaico al tempo di Gesù si incentra essenzialmente sul ruolo dei gentili nel progetto di Dio.
L'idea della elezione di Israele non è vissuta in generale come contraddittoria o come esclusiva. Si tratta di un richiamo ad una responsabilità particolare che da Dio viene data agli ebrei, i quali soli sono attesi di obbedire alle leggi date attraverso Mosè. Ma poi si discute molto anche della sorte dei gentili.
Di per sé anche il tempio di Gerusalemme è un tempio aperto ai gentili. Questo non dobbiamo dimenticarcelo. Il tempio di Gerusalemme, in mano sadducea, era visitato ogni anno da migliaia di gentili, timorati di Dio, moltissimi timorati di Dio, che visitavano il tempio di Gerusalemme. Nessuno chiedeva una patente di monoteismo per entrare nel tempio di Gerusalemme. Noi abbiamo notizia anche di gentili politeisti che offrivano sacrifici al Dio di Israele, così come offrivano sacrifici ad altre divinità o ad altri santuari. In fondo Gerusalemme era un grande santuario dell'epoca ellenistica.
La limitazione nel tempio era dovuta soltanto al luogo fisico in cui un gentile poteva entrare. Cioè non c'era una proibizione per il gentile di entrare nel tempio. Voi sapete che il tempio di Gerusalemme era costruito attraverso una serie di cortili concentrici dove ognuno aveva il suo spazio. Il Santo dei Santi era riservato alla divinità e soltanto il sommo sacerdote vi entrava una volta all'anno per Yom Kippur, poi c'era il cortile dei sacerdoti, che era quello più vicino al Santo dei Santi, c'era il cortile dei leviti, di coloro che aiutavano i sacerdoti nel compiere i sacrifici, poi c'era il cortile degli uomini, il cortile delle donne e il cortile dei gentili.
Quindi, diciamo, la presenza dei gentili era riconosciuta nel tempio di Gerusalemme ufficialmente, nel senso che i gentili erano invitati a entrare nel tempio di Gerusalemme, e potevano presentare, offrire sacrifici al Dio di Israele senza nessuna limitazione.
Il famoso episodio in cui, ricordate, Paolo viene arrestato nel tempio non è perché Paolo è entrato con un gentile, ma perché si accusa Paolo di avere introdotto nel recinto degli ebrei un non ebreo, non di avere introdotto nel tempio un gentile. Non c'è nessuna limitazione nell'entrata nel tempio da parte di un gentile. I non ebrei potevano entrare e venerare Dio tranquillamente nel tempio di Gerusalemme. Naturalmente la maggior parte dei visitatori erano questi timorati di Dio, che si consideravano membri a tutti gli effetti della religione ebraica, e quindi consideravano il tempio il centro del culto a Dio, e quindi frequentavano regolarmente il tempio di Gerusalemme.
Ma vi erano naturalmente anche componenti molto tradizionaliste, molto intolleranti. Per es., il libro dei Giubilei, che è un testo probabilmente di matrice essenica, anche se forse non rappresentativo dell'intero movimento essenico, reinterpreta il mito degli angeli caduti dicendo che però il patto divino è come una muraglia che si estende intorno al popolo di Israele, per cui gli spiriti impuri sono lasciati liberi di interferire ai danni dell'uomo sulla terra al di fuori dei confini di Israele, non all'interno dei confini di Israele che sono protetti dal patto, dall'obbedienza. Quindi finché Israele obbedisce alle norme e si mantiene fedele alle norme del patto gli spiriti impuri danno fastidio ai gentili, ma non interferiscono con gli ebrei.
Il libro dei Giubilei è molto rigido neri confronti dei gentili. In generale per lui i gentili sono un mondo di perdizione che dovrà essere completamente distrutto, annientato alla fine dei tempi. Questa posizione anche estrema la troviamo nella comunità di Qumran, che addirittura estende i confini della perdizione anche per quegli ebrei che non appartengono al gruppo.
Cioè, ripeto, l'intolleranza è presente nel mondo giudaico, come ci sono invece componenti assolutamente non intolleranti. La tradizione enochica, per es., parla esplicitamente del fatto che esistono giusti fra le genti. Diciamo, la cosa è un pochino speculare rispetto ai Giubilei. Il libro dei Giubilei dice: il male non interviene per il popolo di Israele, noi siamo protetti dal patto, e si manifesta soltanto al di fuori. Il libro dei Sogni, che è un libro della tradizione enochica, dirà invece esattamente il contrario. Dice che il male è presente dappertutto, cioè gli spiriti impuri purtroppo sono un pericolo per ebrei e gentili allo stesso modo. Però esistono giusti fra i gentili e giusti fra gli ebrei. E alla fine dei tempi i giusti fra gli ebrei e i giusti fra i gentili si troveranno insieme nella nuova umanità, che sarà l'umanità redenta dal peccato.
Cioè esplicitamente in quella che si chiama l'Apocalisse degli Animali - è una narrazione della storia dell'umanità, in cui ciascun popolo è descritto come diversi animali, logicamente gli ebrei sono le pecore, i gentili sono gli uccelli del cielo o gli animali della foresta - si dice esplicitamente che alla fine le pecore buone di Israele si ritroveranno assieme agli uccelli del cielo e agli animali selvaggi della campagna che sono giusti nel mondo avvenire, accolti da Dio nella sua misericordia. E Dio trasformerà questa umanità diversa nel nuovo popolo di Dio, del quale, quindi, fanno parte sia ebrei che gentili.
Quindi, come vedete, i cristiani si rifanno molto a questa linea. Quindi c'è un dibattito, nel quale il cristianesimo è parte in causa, evidentemente. Affermare che, per es., gli spiriti impuri sono presenti anche in Israele, Gesù guarisce ebrei affetti da spiriti impuri, è già di per sé un prendere posizione nel dibattito, perché già si afferma che il male non è un problema degli altri, non è un problema dei gentili, è un problema di tutti. Questo l'ha detto anche Paolo quando afferma che tutti sono peccatori. Ecco, questa è una affermazione che va in contrasto con quelli che dicevano: no, solo gli altri sono peccatori, perché il male non interessa i confini del patto stabilito da Dio.
Ovviamente una volta stabilito questo principio che il male è un problema universale, il cristianesimo si colloca su questo versante del pensiero giudaico: il male è un problema universale che interessa ebrei e non ebrei. E quindi anche il problema della liberazione dal male, del sostegno che Dio dà attraverso il figlio dell'uomo, logicamente viene a situarsi anche nei confronti delle pecore perdute della casa di Israele, ma poi può estendersi per analogia anche ai peccatori tra le genti.
Ovviamente c'è anche il problema di chi siano i peccatori, cosa significa essere peccatori e quanto forte sia il problema del male. Voi sapete che una delle grosse controversie che avvengono nella tradizione cristiana delle origini è quella che vede opporsi da un lato la famiglia di Gesù, e la Chiesa di Gerusalemme guidata da Giacomo fratello di Gesù, e i discepoli di Gesù e Paolo. È una controversia, o una differenza di opinioni, una pluralità di opinioni che, naturalmente, come sempre succede in questi casi, coinvolge diversi piani e diversi aspetti.
Se Gesù è il Messia, e quindi è anche il re del nuovo regno… Per es., uno dei primi problemi che i cristiani si trovano ad affrontare è: chi è il successore di Gesù, ora che Gesù è in cielo e siede alla destra del Padre? Chi è il suo rappresentante in terra, in questo momento?
E qui naturalmente si apre una controversia, perché nella visione dinastica esistono soluzioni diverse, almeno tre soluzioni diverse. Una è la soluzione dinastica, cioè una soluzione famigliare, il consanguineo più vicino. Anche nell'ebraismo quando il sommo sacerdote è assente o muore gli succede il consanguineo più vicino, o il fratello, o il figlio, o il nipote, come nella monarchia britannica oggi c'è il discorso della successione.
Però, per es., anche nell'impero romano, alla successione all'imperatore, al modello famigliare dinastico consanguineo si affiancano altri modelli, per es., il modello adottivo. L'imperatore adotta come suo successore colui che ritiene più all'altezza della situazione, quindi potendo giocare su un pool di candidati che è più ampio di quello dei consanguinei più vicini. Molti degli imperatori romani succederanno al precedente non in virtù della vicinanza dinastica consanguinea, ma sulla base di una scelta, di una adozione fatta dall'imperatore precedente.
Oppure c'è il modello carismatico, il terzo modello, che è il modello di colui che emerge all'interno della comunità, o, nel caso dell'impero romano, all'interno dell'esercito, come colui che ha il sostegno popolare più forte.
Come vedete, questi sono tre modelli che si trovano tutti e tre nella Chiesa primitiva, perché abbiamo il modello consanguineo della famiglia… Logicamente molti guardavano al fratello di Gesù come al successore di Gesù, per motivi immediati. Una volta che Gesù non c'è più è il suo fratello che gli succede nelle funzioni. E non a caso Giacomo diventerà il capo della Chiesa di Gerusalemme, che accetta questo modello. Fra l'altro, non è l'unico.
Secondo la tradizione della successione dei vescovi - chiamiamoli vescovi, ora - dei leader della Chiesa di Gerusalemme, fino alla rivolta di Bar Kochba sono tutti consanguinei di Gesù, tutti parenti di Gesù: fratello, altro fratello, nipote, nipoti vari e figli di nipoti, fino al 135, quando Gerusalemme, dopo la rivolta di Bar Kochba, è conquistata da Adriano. L'imperatore espelle tutti gli ebrei dalla città di Gerusalemme, inclusi gli ebrei cristiani. E a questo punto il capo della Chiesa di Gerusalemme diventa una persona che viene nominata secondo la successione apostolica.
Quello che chiamiamo successione apostolica è il modello adottivo. Gesù ha scelto un gruppo di persone come suoi successori, e quindi a loro volta essi sceglieranno i loro successori, attraverso un processo, che è ancora in vigore in molte Chiese, di adozione, di scelta, di cooptamento del successore da parte della leadership presente.
Poi c'è il modello carismatico che diventerà molto importante nelle Chiese gnostiche, dove invece si afferma che è il leader carismatico, colui che emerge nella comunità come il leader carismatico, che è il successore, il leader della comunità. Questo modello avrà molta fortuna tra la fine del I secolo, e II, III secolo tutto, nelle Chiese gnostiche, dove è il discepolo amato che ha la leadership, non per scelta della leadership precedente, né per rapporto consanguineo, ma per carisma personale.
Quindi, dicevo, c'è anche un problema di successione che divide. Poi ci sono naturalmente anche problemi teologici, o di accentuazioni. La Chiesa di Gerusalemme è una Chiesa - e il Vangelo di Matteo è molto in linea, lo vedremo anche domani con la tradizione della Chiesa di Gerusalemme di Giacomo - è una Chiesa che mette al primo posto l'annuncio all'interno del popolo ebraico, presenta Gesù come il Messia ebreo, pur mantenendo la possibilità dei gentili presenti nella comunità, ma come eccezione e con uno status separato rispetto agli ebrei. È quello che vi dicevo come i due tavoli.
Nella tradizione, invece, che poi farà riferimento essenzialmente a Paolo si sviluppa invece un altro modello nel quale i gentili vengono equiparati agli ebrei all'interno della comunità su un piano di uguaglianza. Non si useranno i due tavoli, si userà un tavolo solo, sarà più sulla base del modello del giudaismo ellenistico che non sulla base del modello essenico o di Gerusalemme.
Questo crea tensioni, conflitti, e, diciamo, logicamente, anche la presentazione, la risposta della domanda di quanti siano i peccatori, come siano i peccatori, ecc., molto dipende anche da quale dei due gruppi si parla.
Soprattutto nelle comunità guidate da Paolo, e, di nuovo, Paolo non è il primo a predicare ai gentili… Nella tradizione cristiana si dice chiaramente che non è il primo. Filippo, secondo la tradizione cristiana è il primo a predicare, a battezzare i gentili. Poi c'è l'evento, la storia, la narrazione di Pietro che si reca in casa di Cornelio, del centurione Cornelio. Quindi, diciamo, anche la tradizione di Pietro si appoggia a questo discorso.
È però in Antiochia che qualcosa di nuovo comincia a emergere. E anche qui non è Paolo, all'inizio, il protagonista, ma il protagonista è Barnaba. Vedete, ci sono delle persone nella tradizione cristiana abbiamo un po' dimenticate: Giacomo, il fratello di Gesù, che è la persona che ha il maggior prestigio nella Chiesa primitiva, prima del 70, molto più di Pietro, di Paolo, e Barnaba. Per es. Barnaba è il leader della Chiesa di Antiochia, e sarà Barnaba a chiamare Paolo, a presentare Paolo a Gerusalemme e poi a chiamarlo come suo aiutante nella Chiesa di Antiochia.
E quello che noi chiamiamo il primo viaggio missionario di Paolo è il primo viaggio missionario di Barnaba. Non è Paolo colui che organizza il viaggio, è Barnaba che organizza il viaggio, e Paolo viene chiamato da Barnaba come suo aiutante. È chiarissimo chi sia al comando. Ricordate il famoso episodio degli Atti degli Apostoli, di Listra, quando loro predicano al mercato, vengono scambiati per dèi. E naturalmente Barnaba viene chiamato Zeus, e Paolo, che è quello che ha la parlantina più svelta, viene chiamato Ermes. Zeus è il capo, Ermes è il portavoce del capo, di Zeus. Quindi da questo racconto si capisce chiaramente che le gerarchie erano ben comprese. Colui che ha il comando è Barnaba, colui che è il portavoce di Barnaba è Paolo.
È soltanto, poi, nel secondo e terzo viaggio che Paolo si separa da Barnaba e svolge questi due viaggi secondo il proprio piano e avendo una posizione chiara di leadership. E ad Antiochia si dice che per la prima volta i seguaci di Cristo sono chiamati cristiani, è ad Antiochia che per la prima volta la presenza gentile diventa numerosa.
Ed è ad Antiochia, anche, che si colloca quello che si chiama la controversia che avviene, di cui ci fa riferimento nella lettera dei Galati, tra Paolo e gli emissari di Giacomo. Questa controversia non a caso ha a che fare sempre con cose molto pratiche, cioè il sedersi a tavola insieme. Paolo racconta che lui, Barnaba e gli altri, durante la mensa eucaristica, sono seduti tutti insieme nello stesso tavolo, e Pietro siede con loro.
Senonché arrivano delle persone da Gerusalemme, da Giacomo, le quali non sono d'accordo su questa pratica e non vogliono sedersi allo stesso tavolo, ma pretendono di avere un tavolo separato. Non pretendono, è quello che loro facevano nella loro comunità, e quindi trovano strano che non si faccia altrettanto ad Antiochia. A questo punto Pietro lascia la tavola in comune e anche lui si unisce agli altri. Allora Paolo se la prende e dice: sei un ipocrita, perché finché eravamo tra di noi ti sedevi tranquillamente fra di noi, ora che sono arrivati questi altri sei andato a sedere con loro.
Sono situazioni molto pratiche. Ad Antiochia ovviamente c'era una prevalenza di giudei ellenisti e di gentili: questi due gruppi non avevano nessuna difficoltà a condividere la stessa mensa, mentre la presenza di cristiani "più ortodossi" da Gerusalemme complica la situazione, perché le diversità delle norme di purità e le diversità delle norme alimentari impedisce a questi gruppi di sedere insieme. E Pietro si trova un po' messo tra due fuochi e in questo caso si prende i rimproveri di Paolo. Naturalmente se avesse fatto altrimenti si sarebbe preso i rimproveri di Giacomo. E in qualche maniera doveva sopravvivere, e cerca un po' di barcamenarsi tra queste due situazioni.
Ovviamente quando si parla di due pratiche diverse immediatamente tra le due pratiche diverse scaturiscono anche delle teologie diverse: perché fate così, perché si dovrebbe fare altrimenti. E logicamente nella teologia di Paolo vi sono degli elementi in cui Paolo tenta di spiegare perché, a suo giudizio ebrei e gentili debbano porsi sullo stesso piano.
Ebrei e gentili possono essere messi sullo stesso piano in due modi, sostanzialmente. I giudei ellenisti dicevano: ebrei e gentili possono stare insieme perché sono tutti e due egualmente capaci di bene rispetto alla volontà di Dio espressa dalla sapienza creatrice. Quindi diciamo, i giudei ellenisti avevano fondato il loro messaggio su una parità tra ebrei e gentili, e quindi sulla possibilità di stare insieme, sul fatto che una volta che i gentili avessero respinto l'idolatria e alcuni aspetti più controversi di pratica di vita, che venivano espressi essenzialmente nelle categorie dell'idolatria, dell'omicidio e dell'impurità sessuale…
L'impurità sessuale era legata moltissimo alle pratiche sessuali idolatre, la prostituzione sacra… Noi di queste cose non parliamo, ma la sessualità nell'antichità era legata alla religione. Per noi è un po' complicato pensare che il sesso sia un modo di rendere culto a Dio, ma nell'antichità classica la sessualità era intesa come una manifestazione della vitalità della divinità e anche un augurio di fertilità per la terra.
Per cui alcune feste popolari nei santuari ellenistici prevedevano, specialmente il culto di Cerere, i culti della fertilità, prevedevano come componente essenziale anche l'esercizio della sessualità nei santuari. Che poi era svolto attraverso queste forme di prostituzione sacra che erano molto diffuse. Poi c'era il discorso della sessualità - qui non sto a dilungarmi - anche nella educazione dei ragazzi. Era un discorso molto complicato.
Evidentemente gli ebrei avevano molta difficoltà ad accettare questi elementi che facevano parte della vita comune, e che in qualche maniera erano di ostacolo ad una completa integrazione. Pensate a una cosa. Gli ebrei che vivevano in una città ellenistica avevano tutto il desiderio di partecipare alla "festa patronale", anche se era in onore di Ercole. Perché bastava dire che Ercole non era un dio, ma era un grande eroe fondatore della città, al quale, poi, alcuni attribuivano la divinità, ma noi non lo veneriamo come dio, lo ricordiamo come fondatore.
Quindi, in fondo, che c'è di male se anche noi partecipiamo alle feste in onore di Ercole, fondatore della nostra città? Dal momento che noi pensiamo che Ercole, come molti gentili dicevano, non fosse un dio, ma fosse un uomo che poi era stato da alcuni divinizzato. Era un uomo, un re al quale, poi, si rendeva culto. Ma voi capite che se queste feste poi implicavano delle pratiche idolatre o delle pratiche sessuali proibite, questo era un grosso ostacolo.
Lo stesso, gli ebrei che vivevano nella diaspora, ad Antiochia o ad Alessandria o a Roma erano molto interessati a mandare i loro figli a scuola nelle migliori scuole, nei migliori ginnasi dell'impero romano. Ma se l'andare a scuola implicava delle pratiche idolatriche o delle pratiche sessuali che erano considerate proibite, questo naturalmente era un grosso ostacolo. Bisognava trovare il sistema di poterle evitare.
Quindi la tradizione giudaico-ellenistica cercava di trovare delle forme di compromesso nelle quali, ferma restando l'astensione da alcune pratiche che venivano considerate contrarie al mosaismo, l'idolatria, pratiche esplicite di idolatria, il consumo della carne offerta agli idoli, il consumo del sangue, pratiche idolatriche e pratiche sessuali proibite, quando si potevano verificare queste condizioni ebrei e non ebrei potevano insieme condividere la stessa mensa e condividere la stessa comunità perché erano insieme capaci di compiere la volontà di Dio e compiere il bene, e di vivere secondo natura.
Paolo, invece, naturalmente viene da una tradizione apocalittica, Paolo è un cristiano, quindi non condivide questo entusiasmo sulle capacità di bene dell'uomo, e volendo mettere sullo stesso piano ebrei e gentili l'opzione che ha lui è di metterli sullo stesso piano non nella capacità di compiere il bene, ma nella stessa incapacità di compiere il bene. Cioè Paolo dice: non c'è differenza fra ebrei e gentili perché entrambi sono soggetti al potere del male ed entrambi sono oggetto in eguale misura della misericordia di Dio.
Gli ebrei hanno la legge che dice loro cosa è giusto e cosa è sbagliato, e questo è un discorso ineccepibile dal punto di vista ebraico. Hanno la legge come dono di grazia, che spiega loro cosa è bene e cosa è male. Ma anche i gentili hanno la loro coscienza che dice loro ciò che è bene e ciò che è male. Quindi non è che i gentili non conoscono il male e il bene. Lo conoscono, ma non attraverso la legge di Mosè, lo conoscono attraverso la legge naturale.
Questa è l'idea che Paolo riprende dal giudaismo ellenistico. Però entrambi si rendono conto che il male è qualcosa che colpisce entrambi alla stessa misura. E Gesù, il figlio dell'uomo si è sacrificato, per Paolo, indistintamente per gli uni e per gli altri. Quindi io non posso creare una differenza tra i due gruppi, perché entrambi sono sullo stesso piano.
L'unica differenza è che gli ebrei hanno ricevuto da Dio la conoscenza del bene e del male attraverso la legge, i gentili, invece, lo conoscono attraverso la legge naturale che parla attraverso la loro coscienza. Ma la realtà di fatto è di vivere in un mondo in cui il male colpisce entrambi i due gruppi alla stessa maniera ed entrambi sono bisognosi di perdono.
E infatti Paolo decide, per questo, di dedicare la sua vita ai peccatori. Diciamo, mentre Gesù dedica la sua vita alle pecore perdute della casa di Israele, Paolo dedicherà la sua vita alle pecore perdute delle nazioni. E lui dice: io mi dedico alla ricerca delle pecore perdute, dei peccatori tra le nazioni dei gentili così come Pietro e gli altri, invece, si dedicano alla predicazione fra gli ebrei. Paolo decide di dedicare la sua vita esattamente al diffondere la buona notizia della misericordia di Dio ai gentili.
Naturalmente questo comporta delle differenze di enfasi. Mi spiego. Paolo, per poter sostenere questa idea ha bisogno di una visione più pessimistica della natura umana, che lui esprime soprattutto nella visione che il male ha creato una situazione di schiavitù dal peccato, nella quale sono coinvolti sia ebrei che gentili.
Per Paolo, lo dicevo anche stamani, la schiavitù è una esperienza diretta. Sa benissimo cos'è la schiavitù. Si diventa schiavi per un debito, ma si diventa schiavi anche per aver perso una battaglia e per essere stati conquistati. Si rimane schiavi finché non sia pagato il prezzo del riscatto.
La visione di Paolo è che l'umanità ha combattuto la battaglia contro il diavolo e l'ha persa. Adamo ha perso la sua battaglia. Come conseguenza i suoi discendenti sono resi schiavi, e vivono una condizione di schiavitù, tutti. Rifacendosi ad Adamo, logicamente, Paolo non si rifà a una parte, non si rifà agli ebrei o ai gentili, si rifà all'intera umanità che è resa schiava del peccato. E quindi può essere liberata da questa condizione soltanto nel momento in cui il prezzo del riscatto sia pagato.
E questo prezzo del riscatto, voi sapete bene dalla lettura di Paolo, è per Paolo il sangue di Cristo, il sacrificio stesso del Cristo, che muore come riscatto, come prezzo da pagare per la redenzione delle persone che sono in schiavitù.
Questa idea che l'uomo è schiavo del peccato non è che piacesse a tutti i cristiani. Soprattutto non piaceva ai cristiani di Giacomo. Perché questa posizione voleva dire che non c'è nessuna differenza tra ebreo e gentile: sono tutti e due schiavi.
La Chiesa di Giacomo, e anche il Vangelo di Matteo preferiranno parlare di tentazione, i sinottici in generale. Siamo sotto la tentazione, quindi. Se uno è sotto la tentazione, è una persona libera che è tentata, non è una persona schiava. È una persona che può correre il rischio di diventare schiava, ma che non è schiava, affronta la tentazione da persona libera, che ha la possibilità di resistere o meno.
Quindi tutta la controversia che poi si genera anche sul problema del perdono dei peccati, del battesimo è una controversia che riguarda il grado di libertà umana. Detto in parole semplici, tutti i cristiani pensano, Paolo, già, come Pietro, pensano che Gesù è il Messia, il figlio di Dio, il figlio dell'uomo, che è stato inviato sulla terra per rimettere i peccati ai peccatori.
Però poi differiscono sulle modalità in cui questo dono è elargito. La tradizione di Giacomo, la tradizione dei sinottici, in generale, cerca di non limitare troppo la libertà dell'uomo, indicando che c'è una specie di sinergia tra l'uomo e Dio nel dono della salvezza. Nel senso, come dirà Giacomo: avvicinatevi a Dio e Dio si avvicinerà a voi, avvicinatevi a Dio e satana si allontanerà da voi.
Cioè il discorso di questa parte del cristianesimo tende a indicare come l'umanità in qualche maniera collabori, sia chiamata a collaborare al dono di misericordia di Dio attraverso uno sforzo, un incontrarsi a mezza strada. Questo incontrarsi a mezza strada, naturalmente, significa che gli ebrei sono messi in una situazione migliore che non i gentili. Perché attraverso la Torah sono più vicini alla volontà di Dio che non i gentili. Non è detto che tutti i gentili siano lontani, ma certamente gli ebrei si trovano in una condizione favorevole rispetto ai gentili. Quindi sono avvantaggiati rispetto agli altri. Quindi il discorso del primato degli ebrei all'interno della comunità cristiana rimane saldo.
Mentre invece la visione paolina abolisce questo primato, se non in una questione temporale, prima è stato annunciato agli ebrei, poi è stato annunciato ai gentili, ma i due gruppi si trovano esattamente sulla stessa posizione.
Addirittura questo comporta una differenza nel modo con cui il messaggio è presentato. Se voi leggete la lettera di Giacomo, o leggete le lettere di Paolo la differenza più immediata che cogliete è nel fatto che la lettera di Giacomo è l'unico testo del Nuovo Testamento dove non si parla della morte di Gesù. Cioè se noi avessimo soltanto la lettera di Giacomo non sapremmo che Gesù è morto. Si sa che Gesù ha insegnato la legge della libertà, ma non si sa che Gesù è morto.
Se voi leggete le lettere di Paolo, e non avessimo i Vangeli, sapremmo pochissimo dell'insegnamento di Gesù. Per Paolo ciò che Gesù ha fatto è quasi esclusivamente di morire. Questo perché? Perché nelle due tradizioni, logicamente, Paolo mette l'accento sulla gratuità dell'intervento divino, quindi sulla gratuità del dono che viene dato, è Gesù che paga il prezzo della redenzione. E l'unica cosa che viene chiesta è di dire un sì o un no, ma non vi è una preparazione, perché lo schiavo non può far nulla, se non accettare che qualcuno paghi il prezzo della redenzione.
Guardate, Paolo si riferisce a cose molto concrete. Se io volevo liberare uno schiavo dovevo chiedere il permesso allo schiavo. Io non posso comprare la libertà a uno schiavo senza chiedergli il permesso, a Roma. Io devo chiedere alla persona se vuole essere liberata o meno. E la persona ha il diritto di rispondere sì o no. C'erano molti schiavi che rifiutavano di essere liberati, per il semplice motivo che magari erano in una casa dove si trovavano bene, dove avevano una vecchiaia assicurata. Cioè, tenete presente, c'erano dei vantaggi anche a essere schiavi, non c'erano soltanto degli svantaggi.
Per cui ci vuole la risposta dell'individuo. E l'individuo può rispondere sì o no. E infatti è questo, poi, che Paolo, di fronte al prezzo del riscatto del sangue di Cristo, la persona deve esprimere un sì o un no.
Però io non posso dire allo schiavo: guarda, vieni domani mattina a mezzogiorno al mercato e ti pago il prezzo della redenzione. Perché lo schiavo non ha la libertà di venire a mezzogiorno al mercato. Sarebbe crudele. Mentre invece a una persona libera posso dire: vieni, a mezzogiorno ci incontriamo e ci troviamo a mezza strada a ricevere questo. Liberati dalla tentazione, muoviti verso Dio, e allora incontrerai.
Allora il messaggio di Gesù, l'insegnamento di Gesù, la morale di Gesù è il cammino che la persona è chiamata a compiere. Perdonate se volete essere perdonati, amate se volete… Cioè, diventa, poi, anche una precondizione per ricevere il dono di giustificazione da parte di Dio.
Mi rendo conto che sono concetti complessi, però vorrei appunto sottolineare questi aspetti perché ci si renda conto anche di un certo dibattito. Noi abbiamo letto per secoli Paolo, soprattutto attraverso gli occhi di Agostino e poi soprattutto la tradizione luterana, come colui che predicava la salvezza per fede.
Ora, Paolo non predica la salvezza per fede. Paolo predica la giustificazione per fede, il perdono dei peccati per fede, non la salvezza per fede. Quando Paolo parla del giudizio finale ne parla esattamente negli stessi termini di Matteo e degli altri testi cristiani: il giudizio è basato sulle opere, è basato sull'amore verso gli altri. Non è basato sulla fede. A nessuno verrà chiesto: hai creduto o non hai creduto?
Ma questo lo dice anche Paolo. Nella lettera ai Romani, che noi prendiamo come testo fondante dell'idea che la salvezza viene per fede, Paolo esplicitamente, nei primi capitoli parla del giudizio finale e ne parla come del tempo nel quale le opere dell'uomo saranno giudicate.
Quando Paolo parla della giustificazione per fede non parla della salvezza per fede. Parla del fatto che la giustificazione, il dono del perdono dei peccati per lui è un dono completamente gratuito. Mentre la tradizione dei sinottici, Matteo, o la tradizione di Giacomo diranno che in qualche maniera è condizionato. Gesù invita al cambiamento di vita, invita a compiere ciò che una persona può compiere, e come risultato di questo sforzo sinergico tra l'uomo e Dio il dono della liberazione dal peccato viene accolto e si manifesta.
Come vedete, sono due prospettive diverse, che riguardano anche una situazione sociale diversa. Paolo vuole costruire una comunità in cui non c'è nessuna distinzione tra ebrei e gentili in termini della vita, del ruolo all'interno della comunità. Domani continueremo un po' questo discorso su Paolo per vedere, poi, cosa succede della legge in un contesto come questo.
Però, diciamo, essenzialmente Paolo ribadisce questo discorso. I cristiani non discutono della salvezza, i cristiani stanno discutendo del perdono dei peccati. L'idea della salvezza rimane sempre un po' ai margini del dibattito cristiano del I secolo, perché viene dato per scontato che esistono giusti fra le genti e giusti fra gli ebrei.
Il problema è cosa si richiede a ebrei e gentili per quanto riguarda il messaggio di giustificazione, di perdono dei peccati che viene promesso, che è la buona novella che viene promessa alla vigilia della manifestazione del regno di Dio. Anche per Paolo la persona giustificata non è automaticamente salvata, anche se Paolo si aspetta che la persona giustificata rimanga fedele a Dio. Ma non è automaticamente salvata.
Se uno riceve la giustificazione, il perdono dei peccati, e poi ammazza qualcuno ovviamente non mi pare che sia molto coerente il quadro. Il battesimo non ha effetto progressivo, non è una assicurazione per tutto il male che io posso compiere nel futuro della mia vita.
Il battesimo, certo, è anche un messaggio di dono dello Spirito, quindi di forza nell'affrontare le difficoltà, ma non è una assicurazione. È quello che dirà Paolo nella lettera ai Galati: Stolti Galati, che avete preso il battesimo come una licenza per fare quello che volete. Il battesimo non è una licenza per poter fare quello che uno vuole. Il battesimo è un dono di grazia che riguarda il perdono dei peccati.
Tanto che questo creò molti problemi tra i cristiani, perché se il battesimo è questo il momento migliore per avere il battesimo era alla vigilia della morte, un minuto prima di morire. E in effetti uno dei problemi che la Chiesa antica ebbe è di convincere i cristiani a battezzarsi presto. Perché la maggior parte dei cristiani non voleva battezzarsi presto. Perché il battesimo non poteva essere ripetuto, e, certo, battezzarsi presto è un grosso impegno per il futuro.
Certo voi pensate però che qui Paolo parla con una visione molto apocalittica, di un arrivo imminente del regno di Dio. Non si pone il problema di tutto il tempo che ci vorrà. Paolo nella lettera ai Tessalonicesi parla che quelli di noi che saranno ancora vivi nel momento in cui Gesù ritorna lo vedranno apparire sulle nubi del cielo. Ne parla come di una cosa che lui si aspetta di vedere nella sua vita. Quindi questo tipo di atteggiamento lo dobbiamo vedere alla luce di questa accentuazione.
Però, logicamente, ripeto, questa distinzione riguarda la domanda dei peccatori. Molto spesso Paolo viene presentato come colui che offre una unica via di salvezza. Chi non crede in Gesù non è salvo. Voi sapete che non tutti nel cristianesimo l'hanno pensata così, ma vi sono forti componenti nella tradizione cristiana che hanno interpretato questo: Paolo come rappresentante di un'unica via di salvezza. Cioè non c'è salvezza fuori del battesimo, del Cristo, del riconoscimento del Cristo, della fede in Cristo.
Oggi nel dialogo ebreo-cristiano si parla molto di Paolo come portatore di due linee di salvezza. Cioè Paolo non esclude che la Torah rimanga la via di salvezza per l'ebreo, mentre predica Gesù come la via di salvezza per i gentili. Io non sono completamente convinto di questo, lo dico subito, anche perché in questa visione rimane inalterato [il fatto] che per i gentili Gesù rimane l'unica via di salvezza.
Io ho scritto recentemente un articolo in cui si parla delle tre vie di salvezza di Paolo all'ebreo, dove, secondo me, Paolo afferma che l'ebreo che obbedisce alla legge è salvo, il gentile che obbedisce alla propria coscienza è salvo. Il problema sono i peccatori dei due gruppi che lo possono essere soltanto attraverso la liberazione dal peccato attraverso Cristo. Perché Cristo, come vi dicevo ieri e stamattina, è morto peccatore per i peccatori, non per i giusti.
Io vedo Paolo molto più all'interno di quest'ottica che non Paolo come colui che afferma che tutti sono peccatori, e che quindi tutti hanno bisogno della giustificazione in modo da essere salvati. Nell'affermazione che tutti sono peccatori io vedo più una presa di posizione di Paolo all'interno del pensiero apocalittico riguardo al fatto che anche Israele è esposto alla forza del peccato.
Nella tradizione apocalittica, vi dicevo prima, c'erano forti componenti che dicevano: il peccato è solo un problema dei gentili, non è un problema nostro. I gentili sono i peccatori, noi non siamo peccatori perché siamo discesi dal patto. Perlomeno nella misura in cui rimaniamo all'interno del patto siamo protetti dalla forza del male. Paolo dice: no. È stato Adamo ad essere reso schiavo, e quindi tutta l'umanità, ebrei e gentili, sono tutti stati resi schiavi del peccato originale, o perlomeno sono tutti influenzati dal peccato originale.
Questo vuol dire che tutti non passeranno il giudizio? Su questo Paolo è molto più sfumato. Anche perché Paolo, per es., quando gli viene chiesta questa domanda di separarsi dal male del mondo, sì, dirà che la comunità cristiana è una comunità di santi nella quale i peccatori non devono rimanere. Però dirà anche che questo non vale per il mondo, altrimenti uno dovrebbe uscire dal mondo. Nel mondo viviamo insieme al male. E ripete il discorso, che si trova anche nei sinottici, del non giudicare, perché il giudice è Dio, non è l'uomo.
Quindi, diciamo, io tendo a vedere Paolo molto più vicino alla tradizione sinottica che non nella maniera in cui è stato interpretato, come un esponente cristiano che già si è staccato dalla tradizione sinottica che invece è più possibilista sulla presenza di una giustizia in questo mondo.
Ripeto, io questa cosa ve la dico da storico, a me sembra più plausibile un ritratto di Paolo in questi termini. Il Vangelo di Matteo si colloca su una linea diversa. Il Vangelo di Matteo, lo vedremo meglio domani, si colloca molto su una linea in cui gli ebrei sono in una posizione avvantaggiata rispetto ai gentili, anche se il Vangelo di Giovanni presenta, nell'esperienza stessa di Gesù un processo di apertura progressiva ai gentili.
Gesù parte da posizioni più intransigenti, secondo il Vangelo di Matteo. Poi abbiamo la prima moltiplicazione dei pani, e l'episodio della cananea è messo in mezzo alle due moltiplicazioni, non a caso. Quasi a indicare che Gesù passa dal banchetto con il popolo ebraico all'esperienza con la donna cananaica che lo convince all'apertura nei confronti dei non ebrei, quindi a un nuovo segno di banchetto che questa volta non è rivolto al popolo ebraico, ma è rivolto ai gentili.
E che poi si manifesterà, si espliciterà nel messaggio del Cristo risorto attraverso l'annuncio esplicito della missione ai gentili, che viene esplicitata dal Gesù risorto nel Vangelo di Matteo, e che viene profetizzata già nell'episodio della guarigione del servo del centurione, che viene reinterpretato da Matteo come una prefigurazione dell'apertura ai gentili.
Non è una discussione accademica. Di questo credo che dobbiamo essere molto coscienti. Ripeto, io vi posso dare qualche indicazione dal punto di vista storico su quelle che sono le coordinate del dibattito di quel tempo. Logicamente, come tutti sapete, ci sono delle grossissime implicazioni, anche per la pastorale, per l'esperienza, per la missione agli altri, e anche delle grosse differenze nell'interpretare Paolo, per es., in  un modo o nell'altro.
Vi racconto un fatto personale. Io insegno Origini cristiane del Nuovo Testamento in una università secolare. Abbiamo studenti di tutte le idee, cristiani, ebrei, musulmani, agnostici. E quindi, diciamo, nella lezione noi parliamo sempre da un punto di vista storico. La storia ci permette di parlare insieme di questi eventi indipendentemente di quella che è la nostra valutazione religiosa sugli eventi stessi. Questa è già di per sé una grossa cosa. La storia offre un terreno comune che non è da disprezzarsi.
Però, dopo, nelle ore di ricevimento gli studenti vengono a dirmi: sì, professore, ha ragione. però il mio sacerdote mi ha detto questo e questo. Poi viene quell'altro e dice: sì, professore, ha ragione, ma il rabbino mi ha detto questo e questo. Poi vien l'altro e dice: sì, ma l'imam ha detto questo e questo. Bene, io ho la kippà in una tasca, il collarino nell'altra e il cappellino musulmano nell'altra, metaforicamente, e faccio un po' di consulenza religiosa, simpaticamente, a tutti e tre i gruppi. Sono conversazioni molto belle.
Devo dirvi la verità, è una delle cose che dà più soddisfazione nell'insegnamento, e che si svolgono, poi al di fuori dell'aula scolastica. Poi questi ragazzi, questi giovani vengono a parlarti della loro visione personale, delle loro esperienze personali, ecc.
Io mi sono trovato in difficoltà una sola volta, ho invitato soltanto una volta uno studente a lasciare la stanza dove stavo, e mi rendo conto che è una misura estrema, l'ho fatto una sola volta in 25 anni di insegnamento. Perché io parlavo, appunto, di queste cose. E questa persona mi voleva convincere che io non ero un buon cristiano perché non pensavo che tutti si dovessero convertire a Gesù Cristo.
Non era quello il punto. Questa cosa non mi dà fastidio. In fondo non c'è nulla di male se tu vuoi convincere tutte le persone che conosci a diventare cristiani. L'unica cosa che cercavo di dirgli era, si era parlato di Paolo, dicendogli: sì, però ricordati che secondo la tradizione cristiana non è che il battesimo dia l'assicurazione per la salvezza. Di solito questi ragazzi sono molto onesti, poi si rendono conto, anche, magari, di certe implicazioni.
E poi alla fine, un po' paradossalmente, gli avevo detto: altrimenti, tu mi capisci, bisognerebbe raggiungere l'assurdo che ad Auschwitz quelli che hanno ammazzato sei milioni di ebrei sono tutti finiti in paradiso perché battezzati, mentre invece le persone che sono state uccise nelle camere a gas sono tutte finite all'inferno. E questo mi disse: è esattamente quello che penso. Se era battezzato, e aveva fede in Gesù, Gesù l'ha accolto in cielo. E quelle persone che sono state uccise se non erano battezzate senz'altro sono finite all'inferno. Al che io dissi: guarda, non sono pagato per starti a sentire ulteriormente. Per favore, non ho voglia di continuare questa conversazione, perché mi pare che non rimane da dirci altro.
Ripeto, è l'unica volta. Perché tante volte bisogna anche avere presente un pochino quelle che sono le implicazioni di quello che si dice. Io leggo qualche volta in libri su Paolo, anche recenti, che senza Gesù l'uomo è incapace di ogni forma di bene. Ma veramente pensiamo questo? Lo domando a voi che siete persone legate…
Veramente voi dite a una persona che non è cristiana che non è capace di bene se non ha fede esplicita in Gesù? Veramente pensiamo questo? Veramente pensiamo che una persona che non è battezzata va all'inferno? Credo di no. Ma anche veramente pensiamo che una persona non sia capace di bene, che Dio non dia la capacità di bene alla sua creatura senza una fede esplicita o il ricevimento del battesimo? Veramente per noi il cristianesimo è questo?
Io qualche volta vedo queste affermazioni buttate giù quasi come se non ci si rendesse conto delle implicazioni. Ripeto, io non amo questa figura di Paolo come il campione di intolleranza cristiana. Non mi convince. Perché io vedo in Paolo più l'Apostolo della misericordia.
Paolo, non si preoccupa di mandare all'inferno le persone, Paolo si preoccupa di salvarle. Altrimenti rovesciamo tutta la sua preoccupazione. Paolo è una persona che è preoccupata di diffondere la buona novella della salvezza, non è una persona preoccupata di dire alle persone: andate all'inferno.
Cioè finisce che un messaggio di misericordia, un messaggio di salvezza per chiunque, qualunque sia la sua situazione, qualunque cosa egli abbia fatto, il messaggio fortissimo di speranza lo si tramuta in un messaggio di forte intolleranza. Questo io credo che non sia giusto oggi, ma credo anche che non sia corretto dal punto di vista storico.
Perché io non vedo nel contesto della riflessione giudaica e cristiana del I secolo, anche se capisco come Paolo possa essere stato interpretato in questa maniera, io però non vedo nei testi stessi di Paolo e nella posizione che Paolo intende prendere il supporto a una tale posizione. Mi posso sbagliare, però è quello che io penso dal punto di vista prettamente storico.
Con questo siamo sempre liberi di sviluppare teologicamente le cose in maniera diversa. Paolo va forse anche vicino a certe posizioni. Però, ripeto, io vedo nei testi dei sinottici e nei testi di Paolo soprattutto questo grande afflato, questo grande messaggio di misericordia, che diventa più e più inclusivo, che non rimane ristretto ai confini dei peccatori della casa di Israele, ma si espande, poi, a includere i peccatori di tutti i popoli, di tutte le nazioni.
Senza per questo negare le persone di cui Matteo descriverà l'identikit nella descrizione del giudizio finale, dove non c'è nessun riferimento alla identità etnica o religiosa della persona. Si afferma soltanto se questa persona ha dedicato se stessa gli altri o no. Ovviamente questo dal punto di vista cristiano è vissuto come un dedicarsi a Cristo, un dedicarsi a Dio stesso. Ma nelle domande del giudizio non vi è nessuna domanda che riguarda l'identikit etnico o religioso, non si chiede di che religione sei o di che etnia sei. Si chiede soltanto ciò che hai fatto, come ti sei relazionato con gli altri.
Questo è forse uno degli elementi dirompenti del Vangelo, e credo anche che si ritrova un po' in tutte le tradizioni. Anche la tradizione di Luca con la parabola del buon smaritano. Chi è il mio prossimo? Guardate, tante volte rifletto su questa parabola del buon  samaritano, e penso alla domanda che viene fatta. La persona non domanda a Gesù: chi è che fa del bene. Domanda: chi è il mio prossimo? Gesù avrebbe potuto dire: il tuo prossimo è chiunque, anche il samaritano. Ma il samaritano non è il prossimo, è colui che fa bene al prossimo. Straordinario.
Cioè, pensateci bene, la domanda è: chi è giusto? E alla fine si domanda: chi è il mio prossimo? E Gesù, ripeto, poteva avere detto: una persona incontra tante persone, e incontra anche un samaritano che è in difficoltà. Quindi poteva dire: guardate, il vostro prossimo è chiunque, anche il non ebreo. In realtà prende un non ebreo, o una persona che non appartiene al prossimo, e lo fa colui che ama il prossimo.
È come se io di fronte alla domanda chi è il prossimo cominciassi col dire: un buddista camminava…, oppure: un uomo fu colpito, prima passò un prete, poi passò una suora, e poi passò un buddista. E il buddista si fermò. È una parabola scandalosa, perché non ti dice: devi amare chiunque. Ti dice che chiunque può amare, indipendentemente dalla sua etnia, indipendentemente dalla sua religione, chiunque diventa l'esempio di ciò che l'uomo è chiamato a fare in rapporto con il suo prossimo.
Grazie

 
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